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Il Messico è il Paese più pericoloso al mondo per i giornalisti

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Dal 2000 ad oggi uccisi circa centocinquanta, nove dall’inizio dell’anno, quattro nell’ultimo mese. Il tasso di impunità per questi delitti sfiora il cento percento. Gli indici sono puntati contro lo Stato.

Il Messico è finito in cima alla classifica dei “Paesi più pericolosi per i giornalisti”, pubblicata annualmente dall’associazione Reporter Senza Frontiere. Allo Stato centroamericano seguono Afghanistan, Pakistan e Somalia. Nazioni travagliate dalla piaga del terrorismo islamico ma che, rispetto al Messico, risultano essere più “clementi” nei confronti dei reporter. Dal 2000 ad oggi, nel Paese latino, sono stati uccisi circa 150 giornalisti, nove dall’inizio dell’anno e quattro tra luglio e il 25 agosto. Data in cui un reporter è stato rinvenuto morto sulla collina di Cacalotepec, vicino alla località messicana di Tejupilco. Si tratta di Nevith Condé Jaramillo, assassinato per aver denunciato i legami tra politici e narcotrafficanti che avvelenano la società messicana. La stessa sorte è toccata anche ai suoi colleghi Rojelio Barrágan, Alberto Nava Lopéz e Jorge Ruiz Vásquez, morti poco prima di Jaramillo. Sono gli ultimi eroi dell’informazione ad aver pagato con la vita la dedizione al loro lavoro: il giornalismo oggettivo e indipendente. Quei 150 uomini e donne, armati di penna, avevano il potere di smuovere le coscienze, di aprire gli occhi dei lettori di fronte alla corruzione ed alla violenza della società. Un potere enorme quanto fragile, che non è bastato a difenderli dai loro persecutori o  a sopravvivere ai loro sicari.

L’immagine di gorilla armati che irrompono in una redazione e pestano un giornalista intento a scrivere un articolo è quasi ricorrente in Messico. I più fortunati se la cavano con un ricovero in ospedale oppure con un’umiliazione. Come essere costretti ad occultare la verità in cambio di una mazzetta, il cui rifiuto potrebbe comportare la morte di un familiare. Altri reporter invece imparano a convivere con l’insonnia, con l’ansia. Mali inevitabili per coloro che non possono compiere un passo senza guardarsi le spalle. Chi racconta la realtà, in Messico, non conosce pace né porti sicuri, perché quelli che dovrebbero vegliare su di lui sono i nemici più temibili. Poliziotti, sindaci e funzionari pubblici a vario titolo perpetrano il 65% delle aggressioni nei confronti dei reporter. Lo ha affermato “Articolo 19”, la ONG che vigila sul rispetto della libertà di stampa nel mondo. Lo Stato centroamericano da anni non è in grado di tutelare la libertà d’espressione e così “l’enorme cimitero di giornalisti”, per citare un’espressione della scrittrice messicana Paula Mónaco Felipe, cresce di mese in mese. Le istituzioni si voltano dall’altro lato. Come? Con un escamotage legale. Quando un giornalista viene assassinato, gli inquirenti dichiarano che “il movente non è legato all’attività professionale della vittima ma alla sua vita privata”. Di solito alla sua “sfera sentimentale”. Ecco ridotta l’entità del crimine, ecco come si ammazza un reporter per la seconda volta, sviando le indagini o facendole cadere nel nulla. Succede quasi sempre.

Secondo la FEADLE (Procura Speciale per l’Investigazione di Delitti Contro la Libertà d’Espressione), il 99.7% dei casi di omicidio di giornalisti rimangono senza un colpevole. Poi non c’è da stupirsi se un reporter viene trucidato per aver denunciato la cattiva gestione di fondi comunali da parte di un sindaco. Nel 2015 il primo cittadino di una città nei pressi di Veracruz fece sparire alcuni fondi pubblici. Il giornalista messicano Moisés Sánchez Cerezo lo scopre e scrive la verità, la sua ultima verità. Dopo la pubblicazione dell’articolo, un gruppo di persone armate preleva  Sánchez dalla sua scrivania, in redazione, e lo porta via. È stato ritrovato dieci giorni dopo  dentro un sacco nero della spazzatura. A pezzi. Oggi si sa  che “il boia” del giornalista è l’ex guardia del corpo del sindaco, il quale ha ordinato al bodyguard di trucidare Sánchez. L’esecutore materiale del delitto ora è in carcere, mentre l’ex primo cittadino è latitante. Spesso, in Messico, criminalità e politica hanno lo stesso volto, l’episodio appena narrato lo dimostra. Questo lascia i giornalisti soli nella lotta contro le ingiustizie, di cui sono osservatori, cronisti e vittime. Le loro morti non  restano soltanto impunite, ma diventano un monito per tutti gli altri guerrieri con la penna.

La reporter messicana Miroslava Breach era una di loro. Per anni ha denunciato i legami tra politica e narcos. Finché un giorno, il 23 marzo del 2017, non è stata trivellata di colpi mentre era in auto davanti a casa sua. Le videocamere di sorveglianza hanno ripreso la scena. Lei, appena uscita dall’abitazione, sale in auto con suo figlio, per accompagnarlo a scuola. Non ha avuto neppure in tempo di uscire dal parcheggio. Il sicario, col volto coperto, si è avvicinato al finestrino ed ha aperto il fuoco, uccidendola. Giunti sul posto, i soccorritori non hanno potuto far altro che prendere atto della tragedia. Il corpo della reporter ancora nel veicolo. Accanto c’era il figlio, vivo ed in stato di shock. E  sul cruscotto, un biglietto con la scritta: “Per avere la lingua lunga”.

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