Attualità
I dazi di Trump e l’inevitabilità di un ritorno al futuro

Intervista ad Adolfo Di Carluccio, Executive Director e membro del Board presso l’Inter-American Development Bank a Washington DC, che chiarisce alcuni punti chiave sulla querelle dazi imposti da Trump: ‘Non siamo noi europei o i cinesi a parassitare gli USA: siamo noi a finanziare il loro deficit’.
Secondo una elaborazione di Promos Italia su dati ISTAT per i primi nove mesi del 2024, gli scambi tra Italia e Usa nei primi nove mesi 2024 valgono 67 miliardi, stabili rispetto al 2023. In particolare, cala lievemente l’export italiano pari a 48 miliardi nei primi nove mesi del 2024 rispetto a 48,6 miliardi del 2023, primi nove mesi, -1,5%. L’import in nove mesi è di 19 miliardi e cresce del 2,8 percento in un anno. Gli scambi sono cresciuti del 45,8 percento rispetto ai 46 miliardi dei primi nove mesi del 2019, cinque anni fa. Il food italiano con un export di 6 miliardi circa in nove mesi cresce del 18,7 percento per export in un anno. La moda italiana vede un export stabile e vale 4 miliardi circa in nove mesi. Tutto questo rischia di collassare con i dazi imposti da Trump al nostro Paese.
Ma vediamo di fare il punto con Adolfo Di Carluccio, Executive Director e membro del Board presso l’Inter-American Development Bank (IADB) a Washington DC, dove rappresenta Belgio, Cina, Germania, Israele, Paesi Bassi e Italia, e prima ancora dirigente presso il Ministero dell’Economia e Finanze italiano, per il quale si è occupato di importanti progetti di cooperazione multilaterale come il piano Juncker per l’Europa del 2015, per contrastare la crisi finanziaria ed economica nell’UE. Adolfo Di Carluccio sottolinea che risponde a titolo personale, e non nella veste di membro del Board della IADB.
Trump ha imposto dazi a una serie di Paesi, a partire dalla Cina – che subisce quelli più pesanti – fino all’Italia e all’Unione Europea. E’ una ritorsione contro i costi in dazi o tasse che ha affrontato negli anni l’esportazione americana?
Partiamo da una premessa per fare chiarezza. In Europa, soprattutto in Italia, siamo gravati da tasse sui consumi come l’IVA e le accise. Tuttavia, queste non rilevano nel commercio internazionale, non sono infatti oggetto di accordi internazionali perché rientrano nella sovranità fiscale nazionale. Non alterano significatamene la concorrenza: Ford e Fiat, per esempio, sono soggette entrambe all’IVA. Ciò che conta per la concorrenza internazionale sono i dazi doganali e le barriere non tariffarie.
Da questo punto di vista, sì, l’Europa è protezionista, ma non molto di più degli Stati Uniti. E oggi, nei rapporti commerciali tra Paesi industrializzati, i veri ostacoli non sono tanto i dazi – ormai mediamente pari al il 5% nella UE – ma le restrizioni non tariffarie, cioè le regolamentazioni, e i sussidi pubblici. (Ndr: una barriera non tariffaria è una misura che attiene a norme tecniche, di imballaggio o di etichettatura, contingenti, ecc. imposta da uno Stato per scoraggiare o limitare le importazioni di certi prodotti sul suo territorio).
In particolare, l’agricoltura è uno dei settori più sovvenzionati sia in Europa che negli Stati Uniti. Questi sussidi, perché alterano davvero la concorrenza a differenza di IVA e accise, sono oggetto di trattative internazionali (WTO), , che tuttavia si trovano ad un livello di avanzamento meno progredito rispetto alle restrizione tariffarie.(Ndr: se gli agricoltori ricevono in UE in genere un sostegno al reddito in base alle dimensioni dell’azienda agricola in ettari, la WTO, ovvero l’Organizzazione Mondiale del Commercio, si occupa di siglare accordi commerciali vincolanti per gli Stati membri, ovvero patti relativi al commercio di beni, servizi e proprietà intellettuale, ispirati a principi di cooperazione, liberalizzazione, rimozione degli ostacoli al libero commercio e riduzione dei dazi.)
Con queste premesse, non credo che Trump agisca per ritorsione verso l’Europa o perché si sente “vessato”. Anzi, una cosa controintuitiva, ma fondamentale da capire, è che un paese con deficit commerciale – che importa più di quanto esporta come nel caso americano oggi – in realtà beneficia del finanziamento del resto del mondo. Non siamo noi europei o i cinesi a parassitare gli USA: siamo noi, e la Cina in misura molto maggiore, a finanziare il loro deficit.
Quindi se gli Usa importano più di quanto esportano, forse il timore è l’asfissia dell’economia interna?

Adolfo Di Carluccio
La maggior parte degli economisti non attribuisce una rilevanza particolare ai disavanzi commerciali, specialmente tra Paesi avanzati, a meno che non diventino tanto ampi da poter generare squilibri macroeconomici, e quindi aggiustamenti repentini e timori sui rimborsi del debito. E in tal caso la ricetta di politica economica prevede di agire con le politica monetaria e fiscale per correggerli, Gli Stati Uniti, inoltre, godono del privilegio di emettere la principale moneta di riserva mondiale.
Quindi no, non credo che Trump abbia obiettivi strategici di apertura commerciale o aumento del benessere collettivo. In realtà, è il contrario: vuole meno globalizzazione.
Perché…la globalizzazione è inevitabile ormai?
È stato eletto da una base elettorale composta da coloro che hanno perso di più dalla liberalizzazione: operai, bianchi e neri, che hanno visto i loro salari calare o sono stati costretti a cambiare mestiere.
Anche se la liberalizzazione crea ricchezza e lavoro, molti di questi lavoratori si sono spostati nei servizi, dove non hanno tutele né potere sindacale, accettando stipendi più bassi e condizioni peggiori. A questa base Trump sente di dover qualcosa e cerca di mantenere il loro consenso.
C’è poi, probabilmente, anche una componente psicologica tesa ad avere ragione, la ragione di un imprenditore di gran carattere, anche contro il consenso unanime degli economisti, da sempre contrari ai dazi.
Questa crisi non era necessaria. È stata provocata e probabilmente si risolverà nel giro di un anno.
Detto ciò, condivido – e non solo per dovere istituzionale – l’atteggiamento del governo italiano e della nostra Premier Giorgia Meloni: continuare a dialogare con gli Stati Uniti. È utile anche per motivi pragmatici, perché prima o poi Trump sarà costretto a fare marcia indietro: la guerra commerciale danneggia anche la sua base elettorale.
I lavoratori americani hanno fondi pensione investiti in borsa, e se il mercato cala, ne risentono direttamente. Inoltre, arriveranno contromisure da altri Paesi. E poi il prossimo anno ci sono le elezioni di midterm (metà mandato): senatori e deputati repubblicani aumenteranno la pressione.
Serve quindi una via d’uscita onorevole per Trump che però nella sostanza riporti gli scambi commerciali alla normalità.
Giorgia Meloni sarà in Usa il prossimo 17 aprile, e si impegnerà in un confronto ‘cordiale’ con Donald Trump. Quale il giusto atteggiamento da parte dell’Europa, che non sia di sottomissione?
Parallelamente, l’Europa dovrebbe agire in modo strategico, colpendo settori americani sensibili per l’elettorato repubblicano, come l’agricoltura e il pollame. Non per vendetta, ma perché è così che si gioca.
Infine, bisognerebbe anche fare “la cosa giusta”, cioè cercare nuove aperture commerciali con altri Paesi e blocchi per compensare l’eventuale calo dell’export verso gli USA. Parliamo di Asia (inclusa la Cina), Canada, Giappone, America Latina e Africa.
Il problema è che molti settori protetti in Europa si opporrebbero. E qui sta un altro paradosso del commercio internazionale: i benefici della liberalizzazione sono maggiori dei costi nel loro complesso, ma sono diffusi, mentre i costi sono concentrati.
I consumatori guadagnano poco ciascuno, non si organizzano, mentre i settori produttivi colpiti perdono molto e fanno lobby.
Questo fa sì che i negoziati sul commercio siano mossi da una sorta di mercantilismo reciproco che il sistema internazionale ha adottato per cercare di bilanciare questa asimmetria: ogni Paese ha concesso aperture in cambio dell’apertura altrui, sotto la pressione dei propri esportatori.
Questa liberalizzazione a livello europeo ha portato, sembra, vantaggi per tutti. Nel momento in cui abbiamo introdotto la moneta unica, aperto le dogane, e io dall’Italia posso portare liberamente beni in Francia o in Germania, abbiamo avuto tutti un beneficio — almeno per come la vedo io. Tant’è che l’euro è diventato una moneta forte.
Sì, i benefici sono stati sicuramente superiori, anche perché sono stati accompagnati dall’introduzione della moneta unica. Tuttavia, inevitabilmente alcuni settori ne hanno sofferto: quelli competitivi solo a livello nazionale, magari non lo sono più a livello europeo, e quindi si sono dovuti ridimensionare. Oggi non ci sono più proteste: ormai è una realtà istituzionalmente accettata.
La liberalizzazione, poi, è avvenuta in modo graduale: non è iniziata con la moneta unica, ma con la creazione del mercato unico. Inoltre, ha coinvolto paesi relativamente omogenei sotto il profilo dei costi. Per esempio, un’impresa polacca che produce beni ad alto intensità di manodopera può essere piu’ competitiva rispetto a una italiana, ma quest’ultima può ancora difendersi puntando sulla qualità.
Il problema si pone quando il commercio avviene tra paesi con strutture di costo molto diverse. In questi casi, il paese con il costo del lavoro (o di altri fattori produttivi) più basso ha un vantaggio tale da spiazzare il settore domestico. Se si aprissero completamente le frontiere, il rischio sarebbe proprio quello di una concorrenza insostenibile per alcune industrie , con reazioni inevitabili da parte dei settori colpiti.
Alcuni settori, come l’agricoltura, se liberalizzati, sarebbero più esposti alla concorrenza internazionale e quindi reagiscono in modo più veemente. Come dicevo prima, quando la struttura dei costi è molto diversa tra paesi, la competizione diventa difficile. E poi ci sono blocchi commerciali con maggiore potere negoziale, che impongono condizioni più favorevoli per sé stessi.
Pensa che alla base ci sia anche un problema di gestione politica del malcontento popolare negli Stati Uniti?
È una delle ragioni per cui Trump è stato eletto: ha raccolto il consenso di chi si è sentito escluso dalla globalizzazione, emarginato da chi invece ne ha beneficiato. Le grandi industrie tecnologiche e farmaceutiche, ad esempio, hanno assorbito capitale umano altamente qualificato, dove gli USA hanno un vantaggio comparativo, e hanno aumentato enormemente i profitti.
Quindi, per essere onesti, anche se non voglio fare l’apologia di Trump, bisogna riconoscere che la liberalizzazione commerciale, almeno nel breve periodo, crea degli squilibri. Genera vincitori e vinti, e ha un impatto notevole sulla distribuzione del reddito. C’è anche una componente di psicologia sociale: quando negli USA si è scelto di aprire i mercati con il NAFTA (Ndr: North American Free Trade Agreement tra Stati Uniti, Messico e Canada, entrato in vigore nel 1994), si è detto alla popolazione di “istruirsi” e di formarsi, perché nel lungo termine si sarebbe prodotto di più nei settori ad alta intensità di elevato capitale umano. Alcuni ce l’hanno fatta, altri no, e chi è rimasto indietro si è sentito colpevolizzato. Ma non è così semplice, soprattutto se consideriamo i costi elevatissimi dell’università negli Stati Uniti.
In confronto agli Usa noi in Italia abbiamo un grande vantaggio: siamo un paese di immensa cultura, abbiamo tanto da offrire, a partire dal cibo — che resta un bisogno quotidiano, più di qualsiasi smartphone. L’Italia, nel suo piccolo stivale nel Mediterraneo, ha ancora molto da dire e da offrire…
Posso confermare che l’interesse per l’Italia è ancora vivo, anzi, in crescita. Questo ha un impatto anche sul commercio: abbiamo un vantaggio comparativo enorme in termini di beni culturali, patrimonio riconosciuto anche dall’UNESCO. Questo dobbiamo valorizzarlo sempre.