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Francesca Alinovi, your not alone any way

Francesca Alinovi, quando incontra la morte, ha 35 anni ed è una dei critici d’arte più affermati sulla scena italiana. È ricercatrice al Dams di Bologna, ma fa anche da talent scout per giovani artisti talentuosi emergenti.
No, quelli nel titolo non sono errori ortografici di chi scrive, ma è la trascrizione esatta di ciò che compare scritto sullo specchio del bagno nell’elegante loft di Francesca Alinovi a Bologna in via del Riccio 7, il 14 giugno del 1983.
Quel giorno la polizia fa irruzione nell’abitazione dopo aver ricevuto l’allerta da parte degli amici della donna, la quale non rispondeva da due giorni alle telefonate, né si presentava agli appuntamenti in agenda.
I poliziotti la trovano distesa sul tappeto del soggiorno, coperta da due grossi cuscini, uno dei quali, quello sul volto, con una rosa deodorante di plastica posata sopra. Francesca è vestita di tutto punto, con tanto di Rolex a movimento automatico al polso e una giacchetta di pelle, indossata nonostante il caldo di quei giorni. Il tappeto sotto di lei è pregno del suo sangue, fuoriuscito a fiotti da un taglio alla carotide e causa del soffocamento mortale. Dei 47 fendenti da arma da taglio, tutti superficiali, presenti sulla parte destra del corpo, tra torace e braccio, solo quello al collo si è rivelato fatale.
E poi c’è quella frase, di difficile interpretazione, scritta sullo specchio del bagno in un inglese sgrammaticato: Your not alone any way (comunque non sei sola). Per il resto l’appartamento è pulito, privo segni di colluttazione o di tracce di sangue evidenti, a parte quella grossa sul tappeto sotto il colo della vittima e una piccola sbavatura rossa sull’interruttore della stanza, come se il responsabile si sia preoccupato di spegnere le luci prima di dileguarsi.
Francesca Alinovi, quando incontra la morte, ha 35 anni ed è una dei critici d’arte più affermati sulla scena italiana. È ricercatrice al Dams di Bologna, ma fa anche da talent scout per giovani artisti talentuosi emergenti. Con uno di questi, Francesco Ciancabilla, pittore e studente 23enne di Pescara, ha avviato da un paio d’anni una relazione strana, quasi morbosa, sicuramente tormentata. Nulla di sessuale però, perché ciò che li unisce è un rapporto platonico mentore-pupillo, a base di una comune passione per l’arte. Non mancano, in ogni caso tra i due, gelosie, litigi violenti e notti brave a base di hashish, cocaina ed eroina.
La notizia della morte circola in fretta in tutto l’ambiente artistico bolognese e gli occhi di tutti, polizia compresa, si puntano subito sul Ciancabilla, tanto che gli amici della vittima lo denunciano in massa. Interrogato, il sospetto non nega di aver trascorso con la vittima qualche ora la domenica pomeriggio, giorno della presunta morte, tra le 15 e le 19,30 e di averla poi lasciata (ancora viva e vegeta) per recarsi alla stazione dove aveva appuntamento con un’amica. Purtroppo per lui, il medico legale colloca la morte in una finestra temporale compatibile con gli orari indicati da Ciancabilla.
Due anni dopo, nel 1985, inizia il processo. I fatti a sostegno dell’accusa si basano su cinque elementi.
Il primo: la porta dell’appartamento non presentava segni di scasso, quindi la vittima conosceva bene il suo aggressore tanto da aprirgli la porta e farlo entrare. Il secondo: l’orario della morte, che secondo la ricostruzione degli inquirenti viene fatta risalire alle ore 18.12, quando cioè, per stessa ammissione del sospetto, Ciancabilla si trovava con la vittima. Il terzo: la relazione tra i due, a detta di tutti turbolenta, con vari episodi di aggressioni e percosse da parte dell’indagato nei confronti dell’Alinovi. Il quarto: Ciancabilla, quel giorno, alle 19.30, telefonò a un’amica riferendo di trovarsi ancora a casa di Francesca e di volerla incontrare alla stazione ferroviaria. Una conferma dell’ammissione già fatta ai poliziotti della sua presenza in casa Alinovi fino a quell’ora. Il quinto: l’orologio automatico della vittima, secondo un calcolo poi rivelatosi errato, dimostrava che l’omicidio era avvenuto in un orario in cui Ciancabilla era ancora insieme alla vittima.
Tutte prove indiziarie, però, in quanto ambivalenti. L’orario della morte, su cui si basano in un modo o nell’altro quasi tutte le accuse, non è poi così certo, potendo essere traslato, secondo alcuni, anche dopo le 19.30. Lo stesso orologio è oggetto di diversi esperimenti che dimostrano che le lancette possono essersi fermate anche in momenti diversi da quello indicato dall’accusa. La telefonata e l’incontro con l’amica ci sono state, è vero, ma Ciancabilla si presenta all’appuntamento immacolato, senza alcuna traccia di sangue visibile e con i vestiti in ordine, cosa questa incompatibile con la dinamica accertata del delitto. A queste diverse interpretazioni delle “prove” dell’accusa si aggiungono alcuni elementi a favore di Ciancabilla, come il fatto che la perizia calligrafica effettuata sulla scritta trovata sullo specchio del bagno scagioni l’indagato, oppure come la presenza del sangue sull’interruttore poteva dimostrare che l’assassino avesse spento la luce prima di andarsene, il che farebbe pensare che il delitto si fosse consumato più tardi delle 19.30, verso il crepuscolo. E dopo quell’ora Ciancabilla era sicuramente sul treno, direzione Pescara.
Tra elementi puramente indiziari a sfavore e altri addirittura a favore dell’indagato, dunque, difficilmente si può montare un’accusa e tanto meno ottenere una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, tanto che in primo grado Ciancabilla viene assolto. Senonché in appello, nonostante l’impianto accusatorio traballante, la sentenza si ribalta, Ciancabilla viene riconosciuto colpevole e condannato a 15 anni di reclusione, poi confermati in Cassazione. L’imputato, che si è sempre dichiarato innocente, non ci sta e si dà alla macchia, prima andando in Brasile, poi in Spagna dove, verso la fine degli anni ’90, dopo una lunga latitanza, viene riconosciuto da un turista italiano. Si scopre così che vive a Madrid da 11 anni sotto falso nome, esponendo le proprie opere e lavorando in un locale gay. All’arresto segue l’estradizione in Italia e il carcere, da cui esce solo nove anni più tardi, tornando a Pescara per dipingere ed esporre i suoi dipinti sotto lo pseudonimo di “Frisco”. Una sua opera in particolare ha suscitato scalpore, in quanto dedicata alla sua musa Francesca Alinovi.