Cinema & Teatro
Eraserhead e l’apologia alla dimenticanza nel film immortale di Lynch

Eraserhead di David Lynch, film che ha ispirato generazioni di registi, a distanza di anni è ancora un inno al nonsense e al subconscio. Ecco alcuni temi che abbiamo trovato dentro questo capolavoro. SPOILER ALERT.
Una polvere luminosa spira da dietro una sagoma dai capelli rettilinei, prolungamento cerebrale che richiama la mitica creatura del dottor Frankenstein e la capocchia di una matita. Solo che questa non è una favola, ma l’abisso dell’inconscio di Henry Spencer e del suo creatore David Lynch che affiorano in Eraserhead – La mente che cancella.
Film del 1977 riproposto a maggio 2025 nelle sale per rendere gloria alla mente artistica ed estetica del regista statunitense, è definito dallo stesso Lynch “un sogno di cose oscure e ingarbugliate” e allo stesso tempo la chiamata inconsapevole di Lynch al suo disagio, non solo suo ma quello umano tutto.
Il simbolismo in questo film è determinante, ma nel momento in cui si crede di aver raggiunto la comprensione dell’emisfero di Lynch, tutto torna al punto d’origine: un’assurda sur – realtà in cui espressioni come “pare”, “sembra”, “quasi” e “forse” sono gli unici modi per avventurarsi nel subconscio urlante del regista.
E lo avvertiamo dal primo frame, in cui un essere di un altro mondo sfregiato e ricoperto di pustole muove delle leve: forse dell’inconscio del protagonista o quelle stesse di un mondo in pre – pandemia sociale. Quelle leve però liberano un feto spermatozoo: l’inizio della fine per il protagonista.
Ci troviamo in una città d’acciaio e ferro, dove l’industria è al suo massimo “splendore” e grigiore. In questo polo desolato trova posto il tipografo Henry Spencer (Jack Nance) che riceve un invito a casa di Mary X (Charlotte Stewart), donna che era ormai parte del suo passato. Se non fosse che Mary X è incinta ed Henry scopre dalla stessa madre della ragazza di doverla sposare. Tutto questo dopo un surreale e macabro pasto svolto tra vaneggiamenti e galletti che prendono vita.
I due si sposano e si palesa così il “problema”: un bebè deforme in fasce. Continuamente in lacrime spinge all’esaurimento Mary X, la quale è costretta ad abbandonare tutti. Quel bebè diventa la catena alla vita di Henry, anche se pare non averne una. L’unica scappatoia è il sogno in cui appare una donna dal viso gonfio e la provocazione di una vicina, a cui Henry titubante cede.
I sogni diventano più oscuri la donna dal viso gonfio canta un indimenticabile In Heaven, la testa di Henry si stacca dal corpo ed è portata in una fabbrica di gomme per matite così da alimentare il business: quello della scrittura della propria trama di vita prima e della dimenticanza dopo.
L’incubo termina, ma ne arriva un altro quando Henry scopre che la vicina sta con un altro uomo. E come se non bastasse il bebè con una risata schernisce la disperazione e lo spaesamento del padre. Padre che in un impeto rabbioso, come Saturno con i suoi figli, lo spoglia delle bende e della vita.
Tutto va in corto circuito. E il misterioso creatore iniziale sfregiato cerca, per quanto può, di portare ordine. Nulla di tutto ciò accade ed Henry termina i suoi giorni in Heaven.
Prigione e claustrofobia
Lynch con questa pellicola non concede fronzoli, anche perché il budget è ridottissimo: dopo la borsa di studio per registi indipendenti riceve pure il supporto di amici durante i 5 anni di gestazione del film.
La scenografia è metallica e mostra i segni di una città industriale, svuotata di esseri umani: dalle ciminiere e tubi sullo sfondo, al fumo che spesso e volentieri utilizza anche per il cambio di dimensione da realtà a sogno, fino alla desolazione e claustrofobia dell’appartamento di Henry. Essenziale e con mattoni alle finestre; una gabbia spoglia che tra luci e ombre tiene in ostaggio il protagonista.
A rendere tutto perturbante è il bianco e nero, la penombra e i rumori anche essi industriali pensati dal sound designer Alan Splet che si intermezzano a una sceneggiatura arida, essenziale. A parlare sono boati, ebollizioni, sirene e anche impercettibili note giocose che ricordano Freaks. Per non parlare del pianto del bebè, essere che si ipotizza fosse un feto di vitello imbalsamato, cosa mai confermata dal regista.
Senza dimenticare la canzone ascetica “In Heaven”, che regge tutta la dimensione del sogno, cantata dall’attrice Laurel Near.
Genitorialità e peso delle responsabilità
Eraserhead invade, scuote e percuote lo spettatore; è innegabile. E lo fa partendo da un ruolo sociale: la genitorialità. Ciò che mostra non è la bellezza dell’essere genitori, ma l’aspetto di cui nessuno parla perché scomodo e in contrasto con la visione gaia del processo, cioè il disagio di essere un genitore, e per di più solo. Genitorialità che proprio in quegli anni Lynch stava vivendo con la prima figlia a Philadelphia, a quanto pare nata anche con una deformazione ai piedi.
Sebbene Henry sia da solo, a lui non tocca lo stereotipo del mammo, ma quello di un uomo succube di un luogo, in primis quell’appartamento angusto e poi dello stesso figlio che limita la sua libertà anche per uscire di casa. Figlio che diventa, infine, capro espiatorio delle sue pene e frustrazioni.
Il ruolo della donna
Nella pellicola è incarnato prettamente da due figure: Mary X e la vicina di casa.
La prima pudica e come dice il suo stesso nome con quella X donna nel suo cromosoma, ma anche un’incognita per Henry e per il bambino. È una ragazza fragile, affatto pronta per una gravidanza che decide di abbandonare il marito e il figlio nonostante la buona volontà. Tutto è troppo e persino l’atto sessuale è qualcosa che ripudia.
E poi c’è la vicina. Opposto della moglie di Henry, sogno quasi proibito e donna sensuale con cui il protagonista riesce ad andare a letto in uno stato quasi di trance e tra liquami non pervenuti. Donna per la quale Henry in fondo, ma molto nel profondo inizia a provare dei sentimenti. Lo fa più con lei in una sola notte, che con la moglie in giorni interi.
Sessualità, perversioni e tradimenti
Il sesso nella pellicola di Lynch è qualcosa che quasi non dev’essere citato a parole. A indicarcelo visivamente invece sono i feti spermatozoi, emblema di virilità e fertilità. Il sesso spesso è ridotto a disagio e strumento surreale nelle vite dei personaggi. Come nella scena in cui Henry provoca il sanguinamento del pollo alla cena di famiglia e che suscita la reazione della madre di Mary X, quasi in balia di un orgasmo ed estasi. Madre, a tratti anche a dir poco perversi che prende in disparte Henry per chiedergli se ha avuto rapporti sessuali con la figlia e finisce quasi per “abusare” di lui.
E non va meglio nella vita di coppia, dove Henry e Mary X hanno avuto un figlio ma lei rifiuta qualunque contatto che invece pare ricercare nella dimensione del sogno quando la vediamo avvolta dal lenzuolo. Per non parlare della scena della cantante di In Heaven che finisce per schiacciare i feto spermatozoi che piovono dal cielo. Cantante e chissà, forse alter ego di Henry che non avrebbe mai voluto la paternità e mostra così il suo disagio e il sentirsi rifiutato dalla moglie.
Rifiuto che coesiste con il tradimento, specie quando Henry vede la vicina di casa con cui è stato a letto insieme a un altro uomo. Lì, emerge tutta l’insoddisfazione del protagonista nell’aver sperato di essere l’unico uomo per questa donna che vedeva forse, dopo la notte insieme, come finalmente la sua fedele partner.
La putrefazione interna e l’anti evoluzione
Sessualità, ma anche visioni. Quelle del corpo del bebè e dell’anima di Henry che a poco a poco vanno in putrefazione come si vede nell’ultima scena con il taglio di bende e la poltiglia rigonfia che fuoriesce. I due sono malati.
E se le cause razionali di malanno e infezione sono le condizioni di vita nell’esistenza moderna, la mancanza di cure e attenzioni adeguate. Nell’inconscio le cause stanno nell’impossibilità di poter perseguire ciò che si vuole ed evolvere, perché imprigionati da paure, codardia e da quel “e se, e se non…” che avvelena più di un lancio nel vuoto.
Forse, il film è anche un po’ il richiamo a uccidere ciò che sta stretto dentro, affrontare il disagio e a trovare nuove vie per il proprio baricentro. Magari dando un colpo di gomma.
Se bastasse una gomma…
Nel film la testa di Henry salta e diventa così pezzo per alimentare una fabbrica di gomme, testate per cancellare tutto alla perfezione. Ma siamo davvero sicuri che basti una gomma o la volontà per cancellare qualcosa dalla nostra vita?
Henry si sacrifica per dare ad altri la possibilità della dimenticanza, non appena impugneranno quelle matite/oblio di vita. Il rischio però è che prima o poi tutto riemerga da quell’inconscio abitato da strane creature.
La soluzione potrebbe essere quella bastata a Henry e allo stesso Lynch: il sogno. Luogo in cui entrambi si sono ritrovati interi con ossessioni, debolezze e perversioni.
Luogo in cui è bastato un abbraccio di quella donna grottesca dalle guance soffici, personaggio ispirato a “Il naso” di Gogol, per trovare redenzione e sollievo dall’omicidio di paure scritte a matita.