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Delitto Lidia Macchi: l’assassino è ancora libero per questioni di spazio

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Il caso Macchi è, in effetti, il primo in Italia ad avvalersi del test del Dna (in questo caso con esito negativo). Dopo questo tentativo, però le indagini si arenano e rimangono dormienti per quasi 28 anni.

Dal titolo si potrebbe pensare che un assassino condannato sia stato rilasciato per il sovraffollamento delle carceri italiane. In effetti, ogni tot, nel Bel Paese arriva un indulto che proclama il “liberi tutti”. Eppure, nel caso di Lidia Macchi, ventunenne uccisa nel 1987, non si tratta di aver liberato un assassino, ma di non averlo mai catturato veramente. E le questioni di spazio, non riguardano le carceri, ma l’ufficio dei corpi di reato. Ciò che mancava era lo spazio necessario per archiviare i vetrini contenenti le tracce biologiche trovate sul corpo della vittima, utili a effettuare confronti con eventuali indagati. Risultato: nel 2000 i preziosi reperti di Dna sono stati volontariamente distrutti.

Ed è così che probabilmente si è “salvato” Stefano Binda, condannato in primo grado all’ergastolo nel 2016 per l’omicidio della ragazza. Ma come c’è entrato Binda in questa faccenda e perchè, tra colpi di scena degni del miglior John Grisham, accuse discordanti e testimoni misteriosi, ha dovuto passare tre anni e mezzo in carcere, prima di venire assolto con formula piena?

È il 7 gennaio del 1987 quando scompare Lidia, una ragazza che difficilmente può essersi fatta dei nemici. Religiosa, attiva nel gruppo scout e in quello di Comunione e Liberazione, fa la volontaria mentre frequenta il secondo anno di Giurisprudenza. Quella sera, si è messa in auto per andare a trovare un’amica all’ospedale di Cittiglio (VA). Si congeda da lei alle ore 20, temendo di tardare per la cena con I genitori. Le sue tracce sembrano perdersi nel parcheggio dell’ospedale. In un mondo ancora senza telefoni cellulari, i genitori la attendono fino alle 9, poi, preoccupati, chiamano invano gli ospedali della zona, temendo un incidente.

La voce si sparge in fretta e, la mattina dopo, un centinaio di scout si presentano dai Macchi attrezzati con mappe e torce per perlustrare i boschi della zona. Trovano la Panda di Lidia a pochi chilometri da Cittiglio e poco più in là scoprono anche il suo corpo, abbandonato a faccia in giù tra le foglie, con le braccia strette al petto. L’autopsia dà la conferma: 29 coltellate inflitte con un pugnale di piccole dimensioni hanno avuto la meglio su quella vita. Non solo, sempre secondo il medico legale, quella è stata la notte in cui Lidia ha perso la verginità, atto che, considerata l’indole della ragazza, sembra improbabile sia stato consenziente.

Al funerale, due giorni più tardi, avviene il primo colpo di scena. 5.000 persone si stringono intorno alla famiglia di Lidia e centinaia di lettere e messaggi di affetto arrivano a casa Macchi. Tra tutte, una lettera in particolare attira l’attenzione della famiglia. È una poesia anonima intitolata “In morte di un’amica”. Nel testo, piuttosto lungo, emergono dettagli particolareggiati del delitto, celati tra i versi della poesia. Frasi come “strazio della carne” (riconducibile alle 29 coltellate), “in questa notte di gelo” (il 7 gennaio dell’87 c’erano -3°C), “il corpo offeso, il velo di tempio strappato” (che richiamerebbe la perdità della verginità di Lidia). E poi c’è quella volontà di lasciare il messaggio anonimo, pur essendo di un amico (così si definisce l’autore nel titolo della poesia) che rende il tutto ancora più inquietante.

La lettera è sicuramente sospetta, ma non è su quella che si concentrano gli inquirenti, ma su altre missive che indicano come responsabile don Antonio, il sacerdote a capo del gruppo scout di Lidia. Questi viene però scagionato grazie alle nuove tecnologie dell’epoca, che permettono, attraverso l’esame del sangue, di risalire all’identità biologica di un individuo. Il caso Macchi è, in effetti, il primo in Italia ad avvalersi del test del Dna (in questo caso con esito negativo). Dopo questo tentativo, però le indagini si arenano e rimangono dormienti per quasi 28 anni.

Nel 2015 il cold case viene infatti riaperto grazie all’iniziativa del sostituto procuratore Carmen Manfreddi, che riunisce tutti gli elementi e si avvale di una nuova testimonianza decisiva che rimette in gioco la famosa lettera anonima. Questa, infatti, mostrata sui giornali e alla tv, ha attirato l’attenzione di una donna che ne ha riconosciuto la calligrafia e l’ha confrontata con quattro cartoline inviatele 30 anni prima da un amico che aveva in comune con Lidia, tale Stefano Binda, all’epoca studente e membro di Comunione e Liberazione. Da quel momento Binda, ex-eroinomane legato al giro di CL, diventa il primo sospettato.

Dopo quasi trent’anni viene perquisita la sua casa e vengono rinvenuti manoscritti dai quali sembra emergere che la lettera anonima sia stata scritta proprio da lui. Addirittura la pagina su cui è scritta la lettera combacia con un quaderno trovato durante la perquisizione. A ciò si aggiunge l’alibi di Binda, che dichiara di aver partecipato, nel periodo dell’omicidio a un campeggio in montagna della Gioventù Studentesca. Alibi, però, non confermato da nessuno dei 50 e più partecipanti, che non ricordano la sua presenza nello specifico. Forti di queste certezze, gli inquirenti imbastiscono il processo a Binda che, a questo punto, si basa su un alibi traballante, sulla perizia calligrafica che conferma la mano di Binda come autore della lettera anonima e su alcune testimonianze. Insomma, le colonnine su cui si regge l’innocenza di Stefano Binda iniziano a cadere una a una e, quando un movente plausibile non viene trovato, ne si crea uno ad hoc o lo si cambia a piacimento: secondo l’accusa, Binda, avrebbe vissuto il rapporto sessuale con Lidia come un tradimento del proprio credo religioso, considerandola responsabile di questo.

Insomma, voleva punirla per averlo indotto a trasgredire ai suoi principi morali. Questo movente, aggiungerebbe all’accusa di omicidio anche l’aggravante “dei futili e abbietti motivi”, aggravante poi accantonata dall’accusa e sostituita con quella “della crudeltà” derivata dall’abuso sessuale sulla vittima, un’ipotesi in totale contrasto con la precedente. Insomma, sembra che gli indizi portino a Binda, ma allo stesso tempo pare un’accusa costruita ad hoc sulla sua figura.

A marzo 2016 viene addirittura riesumato il cadavere di Lidia Macchi. I nuovi accertamenti, disposti con incidente probatorio, permettono di estrapolare circa 6.000 reperti tra cui 4 capelli nella zona pubica della vittima. Non appartengono né a lei, né alla famiglia, né tantomeno a Stefano Binda. Questa sembrerebbe l’unica buona notizia per l’indagato.

Nonostante questo, e nonostante si sia sempre proclamato innocente, il 15 gennaio 2016, Binda viene condannato all’ergastolo in primo grado, nonostante all’accusa manchi l’unico vero elemento di prova che avrebbe confermato o meno la sua colpevolezza: gli 11 vetrini con le tracce biologiche dell’assassino sono stati distutti nel 2000 per mancanza di spazio nell’ufficio reperti.

Ma la giustizia italiana, si sa, vuole due, se non addirittura tre gradi di giudizio per additare definitivamente qualcuno come feroce assassino. Ed è proprio al processo d’appello che c’è un nuovo colpo di scena. Anche in questo caso c’è un nuovo testimone da ascoltare, Piergiorgio Vittorini,un avvocato già sentito in primo grado, che si era avvalso però del segreto professionale. Ora, rimanendo ligio al suo “doveroso” silenzio, dà però nuove informazioni: un signore, più anziano di Binda e vicino agli ambienti di CL ha ammesso davanti a lui, vincolandolo però al segreto professionale riguardo alla sua identità, di essere l’autore della lettera anonima giunta alla famiglia Macchi nel 1987. Le richieste dell’accusa di far sottoporre questo “signore” al test del Dna e a quello calligrafico finiscono nel “calderone” del segreto professionale e delle condizioni poste dal cliente dell’avvocato di non voler rivelare di più a riguardo.

Insomma, la prova principe dell’accusa viene messa in discussione, seppur con una testimonianza “riportata” e, con essa, anche trema anche la prova calligrafica e la testimonianza di chi, per prima, aveva riconosciuto quella scrittura come di Stefano Binda. A ciò si aggiungono tre testimonianze che confermano l’alibi di Binda e la sua presenza al campeggio di Pregelato nella notte dell’omicidio. Senza contare l’assenza del suo Dna sui quattro capelli trovati sul cadavere a seguito della riesumazione.

Tutto porta quindi in una nuova e sorprendente direzione, tanto che Stefano Binda viene assolto in appello con formula piena per non aver commesso il fatto, una sentenza che annulla e ribalta di fatto la precedente di primo grado e che lascia l’omicidio di Lidia Macchi, ancora una volta, senza un responsabile. Che sia stato Binda o meno, il risultato non cambia: l’assassino è ancora là fuori, libero per una semplice questione di spazio. Libero per l’incuria e la trascuratezza degli inquirenti. Libero per la scelta di gettare nella pattumiera le uniche prove, i vetrini con il Dna dell’assassino, che oggi, con le moderne tecniche di genetica, avrebbero consegnato alla famiglia Macchi il volto di un uomo che hanno inseguito invano per 30 lunghi anni.

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