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Diritti umani

Crotone, delitto D’Arca, nella sesta udienza parlano due testimoni degli imputati

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L’11 Marzo, si è tenuta innanzi alla Corte di Assise di Catanzaro l’udienza del processo a carico di Cortese Giuseppe e Pezzaniti Francesco che rispondono dell’omicidio di D’arca Stefano, barbaramente trucidato l’8 marzo del 2019 innanzi al Bar Moka, a seguito di un alterco che la vittima ha avuto con i proprietari del bar.

Due giorni dopo l’anniversario della scomparsa di Stefano D’Arca, l’imputato Giuseppe Cortese si è seduto di fronte alla Corte d’ Assise di Catanzaro e ha raccontato la sua diversa versione dei fatti con una dichiarazione spontanea: “Non ho sparato io, mio nonno mi ha detto di prendere la pistola, dopo l’accaduto mi sono lavato le mani perché soffrendo di epilessia, dal nervoso ho tirato delle ‘pellicine’ che avevo sulle mani e quindi mi usciva il sangue. Chiedo scusa alla Corte, ai giudici qui presenti, chiedo scusa alla Corte, chiedo scusa alla famiglia D’Arca” queste le sue ultime parole.

Tra i testimoni portati dagli imputati, Plutone proprietario della palestra frequentata dal Cortese, con cui Stefano D’Arca aveva avuto una discussione 20 anni fa, ma rimasti buoni amici dopo un chiarimento. Un’altra testimonianza quella del sig.Salice proprietario del bar “La Siciliana” ha detto che la cosiddetta “bestia” D’Arca andava nel suo bar molto spesso per ubriacarsi e creare liti con gli altri clienti, ma alla domanda della parte civile, l’Avv.Emanuele Procopio, se fosse parente della famiglia Cortese/Pezziniti, esso ha affermato di essere un cugino di primo grado della moglie dell’imputato Francesco Pezziniti.

La vedova D’Arca ha così commentato le testimonianze: “Mio marito non era la bestia che descrivono, sono indifferente alle scuse del Cortese, perché non sono vere, non riporteranno mio marito a casa, sarà solo la giustizia italiana a darmi un po’ di pace”.

Come si sono svolti i fatti che hanno portato all’uccisione di Stefano D’Arca

La lite tra D’Arca e Cortese sarebbe degenerata la notte del 7 marzo alla chiusura del bar Moka di Luciano Cortese padre di Giuseppe, per la perdita di una schedina. Stefano D’Arca avrebbe danneggiato una zuccheriera e una vetrina, forse era ubriaco. Giuseppe Cortese chiamò il padre Luciano che, con l’ausilio di alcuni dipendenti, separò il figlio e D’Arca, ma neanche lui riuscì a riportare la calma.

Allora il giovane chiamò il nonno, che abita a due passi da lì ed è il titolare dell’hotel Concordia.

Lo stesso Giuseppe Cortese a quel punto prese una pistola in uno sgabuzzino e tornò sul posto, ritrovandosi con D’Arca che inveì verbalmente. «Ti sei preso una pistola per spararmi?». Quindi D’Arca venne allontanato dal bar dal padre del ragazzo che, a quanto pare insieme al nonno, a quel punto affrontò D’Arca che con atteggiamento di sfida disse al giovane che non avrebbe avuto il coraggio di sparare.

Il nonno sostiene di aver impugnato lui l’arma e di aver sparato.

Sette i colpi partiti da quella maledetta calibro 7,65 con la matricola abrasa, cinque dei quali raggiunsero al petto D’Arca, che morirà in ospedale poco dopo.

Il nonno chiamò l’ambulanza del 118 e la polizia, dichiarando: “abbiamo sparato a qualcuno che ci ha aggrediti… ci siamo difesi”. Ma la polizia intervenuta sequestrò a casa del nonno un’altra pistola clandestina. La vicenda fu ricostruita rapidamente dagli agenti della Squadra Mobile della Questura grazie anche alla visione delle immagini registrate dagli impianti di videosorveglianza, da cui emerge un quadro inquietante.

Le parti civili del processo sono l’avv. Jessica Tassone per D’Arca Graziella, l’avv. Emanuele Procopio per Valeria Scoleri e l’avv. Simona Manno per il nipote Filoramo Marco Antonio. Gli avv.ti Fabrizio Gallo, Marco Malara e Agnese Garofalo per i fratelli e la mamma di D’Arca.

Si ritorna in aula di prossimo 24 Giugno.

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