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Attualità

Caso Bebawi: l’amaro volto della Dolce Vita

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Un omicidio efferato quello di cui fu vittima Farouk Choubagi nel 1964.  Ad aggiungere clamore alla vicenda, poi un’ulteriore fatto: i due avvocati difensori dei coniugi Bebawi rei confessi ognuno a suo modo,  sono principi del foro del calibro di Giovanni Leone (futuro Presidente della Repubblica), schierato con Claire, e Giuliano Vassalli (futuro Ministro di Grazia e Giustizia e padre del nuovo Codice Processuale Penale), dalla parte di Youssef.

Sesso, sangue e soldi. Un tempo erano le cosiddette tre S gli ingredienti giusti perché una notizia facesse alzare le antenne dei media e attirasse il macabro interesse del grande pubblico. Perchè dove c’è sesso c’è gossip, dove c’è sangue, molto probabilmente, c’è scappato il morto e dove ci sono i soldi non mancano personaggi di spicco. E se un delitto con tali caratteristiche avviene negli anni della Dolce Vita e nelle immediate vicinanze di quella via Veneto che le ha praticamente dato i natali, allora il giornale di turno non può che ritenersi soddisfatto: la tiratura, per qualche mese, è assicurata.

È il 20 gennaio del 1964 quando, in via Lazio a Roma, nell’ufficio della Tricotex, ditta che commercia nel tessile, una segretaria trova il cadavere del proprietario, Farouk Chourbagi, riverso a terra, ucciso da quattro colpi di pistola calibro 7,65 e sfigurato al viso con il vetriolo.

Chi è la vittima? Un egiziano di 27 anni, figlio dell’ex ministro del Tesoro egiziano. Un ragazzo ricchissimo e bellissimo che ama la dolce vita romana e le belle donne, solitamente giovani e aristocratiche, di cui è solito circondarsi. Ed è proprio su una di queste che si concentrano sin da subito le indagini degli inquirenti, dopo la testimonianza della segretaria che, nei giorni precedenti aveva ascoltato una telefonata tra il suo capo e una donna, tale Gabrielle Bebawi, detta Claire. Telefonata che aveva sconvolto Chourbagi e che era terminata con le parole di lui “Ci vediamo nel mio ufficio sabato pomeriggio”.

Anche Claire è egiziana e con Farouk aveva avuto una relazione extraconiugale durata tre anni, non riuscendo peraltro mai a rassegnarsi per la successiva fine della storia, nonostante il marito Youssef, un industriale egiziano, ne fosse venuto a conoscenza e avesse deciso di rimanere con lei per il bene dei loro tre figli.

Le indagini degli inquirenti relative alla coppia si concentrano su tre elementi: I loro spostamenti, la linea temporale degli eventi e la possibilità di procurarsi il vetriolo. Sui loro spostamenti di quel sabato 18 gennaio, giorno in cui si ipotizza sia avvenuto il delitto, si scopre che i due erano appena arrivati a Roma dalla Svizzera dove vivevano, prendendo una stanza a poca distanza da via Lazio, ma che poche ore dopo erano ripartiti. Ciò fa nascere più di un sospetto negli investigatori. La linea temporale degli eventi conferma infatti, grazie alla testimonianza del custode di casa Chourbagi, che la vittima era uscita alle 17 e dunque a quell’ora doveva essere ancora viva, mentre un altro portiere, quello dell’albergo dei coniugi Bebawi, afferma che marito e moglie erano rientrati in stanza alle 18,30. Ulteriori indagini appurano che i Bebawi erano ripartiti lo stesso giorno alle 19.30 prendendo un treno per Napoli, dove li aspettava una coincidenza per Brindisi, seguita dal primo volo disponibile per la Grecia. Le tempistiche vengono considerate più che sufficienti per incontrare Chourbagi, ucciderlo e levare in tutta fretta le tende. Relativamente all’arma del delitto, poi, gli inquirenti scoprono che la signora Bebawi aveva acquistato in Svizzera proprio una boccetta di vetriolo e che Youssef aveva regolarmente registrato la proprietà della pistola utilizzata per commettere l’omicidio. L’intervento dell’Interpol, in collaborazione con la squadra mobile di Roma, permette di rintracciare i fuggiaschi ad Atene, poco prima che riescano a imbarcarsi su un aereo con direzione Libano.

Fin qui tutto facile per gli inquirenti, ma i guai iniziano nel momento in cui interrogano i Bebawi. Youssef afferma che quel sabato aveva accompagnato la moglie fino al portone della ditta di Farouk perchè potesse risolvere la propria relazione con l’amante attraverso un confronto definitivo. Dichiara di averla aspettata in strada e che la moglie era tornata indietro poco tempo dopo raccontandogli di aver ucciso Farouk. Youssef dice anche di aver notato a quel punto nella borsa di lei sia la presenza di una pistola che di un flacone vuoto di vetriolo, aiutandola poi a disfarsene per amore dei figli e per mantenere unita la famiglia. A queste dichiarazioni fanno da contraltare quelle della donna, che nega ogni addebito e accusa a sua volta il marito, confermando solo in parte le parole di questi: dopo essere salita dall’amante, durante la discussione, era intervenuto Youssef armato di pistola e, in seguito a una breve colluttazione, questi aveva sparato a Farouk, gettando infine il vetriolo sul volto del cadavere.

Due testimonianze simili, dunque, entrambe plausibili, ma divergenti allo stesso tempo. Due versioni in cui i sospettati si accusano a vicenda, confermando l’omicidio, ma lasciando gli investigatori perplessi su chi possa averlo effettivamente commesso. Da un lato la vendetta di una donna abbandonata che desiderava un amante senza però voler rinunciare ai privilegi del suo status sociale derivati dall’essere moglie di Youssef, dall’altro la gelosia di un uomo tradito che, pur volendo mantenere la propria onorabilità, non rinuncia a mantenere unita anche la famiglia. Due moventi, due versioni, due possibili colpevoli.

Queste le prese di posizione delle due difese durante il lungo processo di primo grado tenutosi nel 1966, in cui i coniugi continuano a puntarsi reciprocamente il dito contro. Un processo che conta 150 udienze, più di 100 testimoni ascoltati e ben 32 ore di camera di consiglio. Un vero e proprio evento che scatena i titoloni della stampa e l’interesse dei lettori proprio per la presenza di quelle tre S a cui evidentemente non si riesce a dir di no. Ad aggiungere clamore alla vicenda, poi, c’è un’ulteriore fatto: i due avvocati difensori sono principi del foro del calibro di Giovanni Leone (futuro Presidente della Repubblica), schierato con Claire, e Giuliano Vassalli (futuro Ministro di Grazia e Giustizia e padre del nuovo Codice Processuale Penale), dalla parte di Youssef.

Una lotta senza quartiere, dunque, con continui colpi di scena che portano a ribaltamenti di accuse e controaccuse. Ed è proprio questa “strategia” comune, seppur apparentemente non concordata, a rivelarsi vincente, in quanto il processo finisce con un pareggio, che nel caso della giustizia significa assoluzione per entrambi per insufficienza di prove. Una perfetta, seppur distorta applicazione della Teoria dei Giochi, secondo la quale se i due giocatori mantengono le loro posizioni, senza tradire l’“accordo” iniziale tra loro nonostante le pressioni esterne, allora riescono a uscirne entrambi vincitori. Nel caso dei Bebawi sembrerebbe mancare l’accordo iniziale di non tradire l’altro, e anzi si punta tutto sull’accusare l’altro, eppure il gioco funziona lo stesso, l’equilibrio lo si raggiunge ugualmente. Ne escono entrambi vincitori.

Nel dubbio se mandare un innocente in carcere sia preferibile a lasciare un assassino in circolazione, la legge sceglie la seconda opzione. Almeno per un paio d’anni, perchè la sentenza viene appellata nel 1968 quando viene tutto ribaltato. La giuria infatti accetta come vera una terza possibilità, e cioè proprio quella Teoria dei Giochi che nessuno aveva ritenuto plausibile in primo grado: i Bebawi sono entrambi colpevoli, hanno ucciso Farouk Chourbagi e si sono volontariamente accusati a vicenda per confondere gli inquirenti e i giudici, prevedendo un risultato di assoluzione, magari consigliati proprio dai due scaltri avvocati che li supportano. È Giovanni Leone stesso, del resto, che pronuncia, nella sua arringa, le seguenti parole: “È impossibile condannare senza prove due imputati che si rinfacciano reciprocamente lo stesso reato”.

Risultato: 22 anni di carcere a Youssef e 20 a Claire, con sentenza confermata anche in Cassazione nel 1974. Colpevoli, dunque, ma in ritardo, perchè nel frattempo i due hanno divorziato e, mentre lui è tornato in Svizzera, lei ha riparato in Egitto improvvisandosi guida turistica per viaggiatori danarosi. Due paesi che, al tempo, non contemplavano accordi di estradizione con l’Italia.

L’altra faccia della Dolce Vita mostra quindi tutta la sua amarezza in quel bel volto sfigurato col vetriolo di cui tutti, in questa storia, sembrano essersi dimenticati, presi dall’ebbrezza di un processo che ha fatto parlare, come spesso accade, più degli assassini e degli avvocati, che della vittima.

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