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Cinema & Teatro

Albertazzi, un po’ dottor Jeckyll, un po’ Hyde, ma molto artista

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Un attore, che se avesse potuto scegliere una fine, avrebbe scelto di morire tra le tavole di un palcoscenico a dispetto della retorica che spesso accompagna tutti i grandi teatranti, ma anche della disperazione cara a Borges nel suo Immortale

Di Andrea Cavazzini

Ho volutamente aspettato qualche tempo prima di iniziare a scrivere di Albertazzi. In genere quando si parla di personaggi importanti, lo si fa sempre in concomitanza di ricorrenze meste e con toni dimessi. Ho preferito quindi attendere qualche settimana, trascorsa l’ondata celebrativa, perché il maestro Albertazzi per me ha sempre avuto una connotazione legata al suo grande desiderio di vivere, nonostante l’incessante avanzare dell’età e alla sua capacità di raccontare il teatro con quell’energia creativa che l’ha sempre contraddistinto.

Un attore, che se avesse potuto scegliere una fine, avrebbe scelto di morire tra le tavole di un palcoscenico a dispetto della retorica che spesso accompagna tutti i grandi teatranti, ma anche della disperazione cara a Borges nel suo Immortale.

Il mio primo ricordo di Giorgio Albertazzi è legato alla sua apparizione televisiva nel Doctor Jeckill e Mr. Hyde di Stevenson. Ero un bambino, la televisione ancora in bianco e nero e ricordo nitidamente questo signore che interpretava il ruolo di uno scienziato e dell’esplorazione fantastica dell’uomo e del suo doppio. Il male e il bene, l’ombra e la luce, la ragione e la follia. Certamente a quell’età certi ragionamenti erano ancora lontani da venire ma fui affascinato immediatamente più che dalla paura legata alle sue sorprendenti trasformazioni, dalla capacità di Albertazzi di cambiare registro interpretativo da medico colto e rispettato, dedito ad alleviare sofferenze a presenza demoniaca, abietta, capace di qualsiasi spietatezza.

Ecco ripensando proprio a quel momento di grande televisione, era il 1969, l’Albertazzi attore riflette molto della sua personalità: complessa, seducente spesso provocatoria, come alcune sue dichiarazioni che fecero discutere. Quando affermò che il teatro era noioso oppure che la morte non era altro che un momento di grande ilarità. Ma anche la sua battaglia contro la tv spazzatura, specchio di un mondo deformato e contro alcuni comici che definiva “straccioni fuori tempo”, uno dei primi attori che la televisione aveva contribuito ad inventarla, protagonista di letture poetiche e sceneggiati di grande successo. Paradossi dell’attore ovviamente da uno che si è sempre proclamato anarchico anche se politicamente fu sempre etichettato di destra, visto i suoi trascorsi giovanili a causa della sua adesione alla Repubblica di Salò.

Albertazzi fondamentalmente fu un uomo libero, che faceva spesso sfoggio di quella ironia pungente tutta toscana di cui era orgoglioso e che non gli impedì di stringere amicizia con un altro spirito indipendente del teatro: Dario Fo che lo descrisse come il “compagno anarchico” anche se con tendenze politiche opposte.

Allievo di mostri sacri come Renzo Ricci e Memo Benassi entrò in teatro dalla porta principale grazie a Luchino Visconti che nel 1949 lo diresse per la prima volta in Troilo e Cressida di Shakespeare insieme a Gino Cervi, Paolo Stoppa e Nora Ricci, nel ruolo del servo di Clessidra, interpretata da Rina Morelli.

Da quel momento, non smise mai di essere in prima linea e investire tutta la sua esistenza professionale in un repertorio monumentale che andava, da Shakespeare a Ibsen, Da Dante a Petrarca, da D’ Annunzio fino a Pirandello.

Fu uno dei pochi attori che si fregiò di recitare all’Old Vic di Londra, allora diretto da Sir Lawrence Oliver in occasione del 400° anniversario della nascita di Shakespeare diretto da Zeffirelli, nel ruolo del tormentato Amleto, il più intricato personaggio uscito dalla penna del Bardo. Era il 1964.Ruolo che fu anche interpretato da attori del calibro di Peter O’ Toole, Richard Burton e Maximilian Schell. In realtà Albertazzi aveva già interpretato Amleto due anni prima in una tradizionale produzione all’aperto a Verona messa in scena dal regista britannico Frank Hauser, ma si sentiva più a suo agio con la produzione più rivoluzionaria di Zeffirelli, che aveva un aspetto contemporaneo, quasi d’avanguardia.

Albertazzi ebbe successi sul palco con molte compagnie, e nel 1956 formò la sua insieme ad Anna Proclemer compagna sulla scena e nella vita. Tra i classici che furono applauditi e che meritano di essere ricordati, Antonio e Cleopatra. Un altro ruolo memorabile fu quello dell’Imperatore Adriano nella produzione visivamente straordinaria di Maurizio Scaparro del 1989 di un adattamento delle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, tra le rovine della villa di Adriano a Tivoli,  testamento spirituale di un grande personaggio storico che intravede la fine della sua vita  reso memorabile dalla performance di Albertazzi  che continuò a far rivivere per 27 lunghi anni.

Albertazzi è stato sicuramente uno dei più grandi attori italiani se non il più grande del ‘900, un grande sperimentatore ma soprattutto un uomo di cultura, un artista raffinato che ha sempre messo al centro del suo teatro la parola e il pensiero, un’alchimia senza la quale il teatro rischierebbe di diventare una cosa noiosa.

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