Diritti umani
Ucai e Prap Triveneto avviano il progetto Exodus per riportare a casa i detenuti africani

Ricondurre in Africa le persone detenute nelle carceri italiane che vogliano far ritorno nelle comunità di origine, dopo un’adeguata formazione in ottemperanza dell’art. 27 della nostra Costituzione
C’è un solo modo per ‘togliere il disturbo’ e continuare la propria vita onestamente anche quando si è commesso un errore tale da finire agli arresti in Italia. L’unico modo è tornare nel proprio paese, lasciato con tanto dolore, sapendo di avere la possibilità di lavorare perché si è stati adeguatamente formati nel percorso di pena per reato commesso nel paese ospitante. In questo caso l’Italia. Ne è convinto Otto Bitjoca, presidente di Ucai, Unione delle comunità Africane in Italia, che sta portando avanti da tempo un progetto tanto ambizioso quanto cartesiano, in sinergia con il Provveditorato della Amministrazione Penitenziaria del Triveneto e l’organizzazione Diritti in Movimento Toscana. Se ne è parlato durante il convegno di pochi giorni fa a Padova presso la Sala Anziani di Palazzo Moroni, dove è stato firmato il primo documento di avvio. Il progetto Exodus si sviluppa fondando su due pilastri essenziali. Il primo è l’articolo 27 della nostra Costituzione che evidenzia: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Il secondo pilastro di Exodus, ancora più essenziale, sta nel fatto che ogni Africano emigrato in Italia ha un grande desiderio di tornare a casa, dalla quale non sarebbe mai partito se avesse avuto un lavoro ed una vita dignitosa. A questo si deve aggiungere un dato reale, che in realtà viene sottaciuto spesso per motivi politici: nelle nostre carceri la presenza africana si attesta al 17% di quella straniera, e per la maggioranza dei casi si tratta di persone che hanno commesso reati di lieve entità, solo per sopravvivere. La maggior parte di loro sono reclusi perché, in attesa di giudizio e senza residenza, non potrebbero andare altrove. Un costo enorme per l’amministrazione pubblica che il progetto di Bitjoca potrebbe diminuire notevolmente.
In questa ottica il sistema penitenziario italiano potrebbe contribuire a favorire il percorso di rimpatrio sfruttando meglio l’esperienza della detenzione con l’acquisizione di capacità professionali dei detenuti, necessarie a svolgere attività nei settori strategici dell’agricoltura, nell’artigianato e in tutti i lavori che richiedano competenze di base. Tali professionalità sarebbero poi volano della vocazione agricola e artigianale dei Paesi africani coinvolti e consentire obiettivi miglioramenti della vita in quelle società. Da questo punto di vista lo stesso Otto Bitjoca, presidente di Ucai ed economista che ormai da più di 40 anni vive a Milano, si farebbe carico degli interscambi con una serie di Paesi Africani che anelano alla crescita economica e riconoscono la necessità di un know how dall’occidente. Quale migliore occasione se non i propri ‘figli’ che tornano a casa con una formazione fondamentale per lo sviluppo economico dei loro territori?
Un progetto Exodus che a conti fatti è davvero la via maestra per aiutare in senso costruttivo il Continente Africano, rispettandone la dignità ed incentivandone lo sviluppo economico. Un progetto non semplice per chi interpreta l’Africa e la diaspora dei suoi popoli verso l’Europa come un ‘Business’ da gestire, e attraverso il quale lucrare guadagni senza risolvere il vero problema in diritti umani: il popolo Africano ha il sacrosanto diritto di costruire paese per paese la sua democrazia, e per farlo ha bisogno di rendersi indipendente dagli antichi colonizzatori in termini di economia, lavoro e capacità di sviluppo.
Tra le autorità che fino ad oggi hanno aderito con entusiasmo e lungimiranza all’idea di Ucai, oltre al Provveditorato per il Triveneto, anche Enrico Sbriglia, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Armando Reho, direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento, e lo psichiatra Mario Iannucci insieme alla collega Gemma Brandi, coordinatrice di Diritti in Movimento Toscana e membro del tavolo istituito dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a tutela dei fragili il 9 gennaio scorso.
Tra le attività formative che si vorrebbero ‘esportare’ in Africa perché utili a quei territori, sono state evidenziate quelle per la realizzazione di call center governativi, imprese cooperative per la panificazione e produzione di prodotti da forno, per la trasformazione di semilavorati industriali e soprattutto per attività di carpenteria in ambito edilizio: muratori, piastrellisti, idraulici ed elettricisti, particolarmente carenti in quei Paesi.
Tra gli Istituti di pena coinvolti che dovranno realizzare classi omogenee di formazione professionale figurano per ora la Casa di Reclusione di Padova, la Casa Reclusione femminile di Venezia e le sezioni di Reclusione degli istituti di Verona, Treviso e Udine. Per ottenere l’indispensabile collaborazione, nel progetto saranno coinvolte le regioni del Triveneto e la Cassa delle Ammende