Arte & Cultura
Ricordare Umberto Eco
Forse il modo migliore per rendere omaggio ad un grande uomo di cultura, sempre portatore di un pensiero libero ma anche ironico e lieve nelle espressioni, sia usare le Sue stesse parole. I testi del Professor Umberto Eco -in corsivo-, sono tratti da varie interviste e liberamente organizzati
a cura del Prof. Antonio Virgili Presidente Commissione Cultura LIDU
Roma, 22 febbraio – Gli ebrei sono i depositari della civiltà del libro e della cultura e anche se non sono più i tempi dei Rotschild, se molte differenze nella società contemporanea sono meno marcate, resta la loro impronta. Per questo sarebbe difficile per gli imbecilli trovare un nemico migliore. Il nemico serve a chi soffre di un’identità debole e un malinteso spirito di gruppo o un malinteso patriottismo sono spesso, purtroppo, l’ultimo rifugio delle canaglie. I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. Perché prendersela con gli Ebrei? Cosa vuole, non ce la si può mica prendere con gli Ottentotti. Un nemico serve sempre ed è meglio che sia in mezzo a noi, che esprima una forma di onnipresenza e di inquietante creatività. Qui siamo al dossieraggio dei giorni nostri che riempie le pagine dei giornali. Alla tendenza a stimolare sospetti disseminando segnali contorti o fabbricati a tavolino. Ma anche alla grossolanità ormai sempre più diffusa nella società italiana che porta in ogni ambiente accademico o scientifico, in aziende ed enti che si vorrebbero rispettabili, i dirigenti e i dipendenti a scambiarsi messaggi insultanti di posta elettronica, accuse deliranti, sgarbi gratuiti estesi a un numero sempre maggiore di lettori. Dicerie, malevolenze, falsità pretese notizie. Fino ad arrivare a una grande rissa universale, un polverone in cui tutte le questioni si confondono in un avvilimento generalizzato. Mi riferisco naturalmente a un certo modo di fare giornalismo, di condurre operazioni a tavolino per poi ossessionare il lettore con baggianate colossali che finiscono per distogliere l’attenzione dalle questioni reali. Ma anche all’imbarbarimento delle relazioni interpersonali e di lavoro cui stiamo tutti assistendo in prima persona. Alla cultura del copia incolla e della citazione arbitraria, di un passaparola pressapochista e sempre malevolo che sta trascinandoci sempre più in fondo. Che i gesuiti della Civiltà Cattolica siano stati dei forcaioli spaventosi lo sanno tutti. Che i primi socialisti svilupparono un vero e proprio filone di pensiero violentemente antisemita è un fatto del tutto reale e documentato. E anche tutto il resto è ben documentato. Se le cose sono andate come sono andate non ci posso fare niente. Quello che conta è cosa vogliamo imparare dalle lezioni del passato. Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati. In città il commesso ti da evidentemente del Lei se hai i capelli bianchi, e possibilmente la cravatta, ma in campagna è peggio: più inclini ad assumere costumi televisivi senza saperli mediare con una tradizione precedente, in un emporio mi sono visto (io allora quasi ottantenne e con barba bianca) trattato col Tu da una sedicenne col piercing al naso (che non aveva probabilmente mai conosciuto altro pronome personale), la quale è entrata gradatamente in crisi solo quando io ho interagito con espressioni quali “gentile signorina, come Ella mi dice…” De- ve aver creduto che provenissi da Elisa di Rivombrosa, tanto mondo reale e mondo virtuale si erano fusi ai suoi occhi, e ha terminato il rapporto con un “buona giornata” invece di “ciao”, come dicono gli albanesi. Tra parentesi, per ragioni forse di politically correct femminista, tra i giovani sono scomparse le signorine. Vi chiederete perché lego il problema dell’invadenza del Tu alla memoria e cioè alla conoscenza culturale in generale. Mi spiego. Ho sperimentato con studenti stranieri, anche bravissimi, in visita all’Italia con l’Erasmus, che dopo avere avuto una conversazione nel mio ufficio, nel corso della quale mi chiamavano Professore, poi si accomiatavano dicendo Ciao. Mi è parso giusto spiegargli che da noi si dice Ciao agli amici a cui si da del Tu, ma a coloro a cui si da del Lei si dice Buongiorno, Arrivederci e cose del genere. Ne erano rimasti stupiti perché ormai all’estero si dice Ciao così come si dice Cincin ai brindisi. Se è difficile spiegare certe cose a uno studente Erasmus immaginate cosa accade con un extra-comunitario. Essi usano il Tu con tutti, anche quando se la cavano abbastanza con l’italiano senza usare i verbi all’infinito. Nessuno si prende cura degli extracomunitari appena arrivati per insegnare loro a usare correttamente il Tu e il Lei, anche se usando indistintamente il Tu essi si qualificano subito come linguisticamente e culturalmente limitati, impongono a noi di trattarli egualmente con il Tu (difficile dire Ella a un nero che tenta di venderti un parapioggia) evocando il ricordo del terribile “zi badrone”. Ecco come pertanto i pronomi d’allocuzione hanno a che fare con l’apprendimento e la memoria culturale.
Piccoli esempi di un modo arguto ed elegante, ma molto chiaro, di trattare di diritti ed antisemitismo, di arroganza del potere dei media, della narcotizzazione culturale (informatica e non solo) e del degrado, spesso anche linguistico, nelle relazioni interpersonali.
Ricorderemo Umberto Eco!