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Nuova udienza della Corte d’Assise di Catanzaro per l’omicidio di Stefano D’Arca

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Si è svolta il 9 luglio scorso innanzi alla Corte di Assise di Catanzaro l’udienza del processo per l’omicidio di Stefano D’Arca, brutalmente assassinato il 7 marzo 2019 a Crotone davanti al bar Moka.

di Benedetta Parretta

Si è svolta il 9 luglio scorso innanzi alla Corte di Assise di Catanzaro l’udienza del processo per l’omicidio di Stefano D’Arca, brutalmente assassinato il 7 marzo 2019 a Crotone davanti al bar Moka.

La Corte presieduta dal dott. Alessandro Bravin ha escusso sei testimoni, il vicequestore aggiunto Lelario ed i testimoni oculari dell’omicidio. Il vicequestore ha illustrato tutte le fasi delle indagini specificando come sono giunti all’arresto di Giuseppe Cortese e del nonno Francesco Pezziniti, precisando che nell’immediatezza dei fatti, il nonno si è attribuita tutta la responsabilità dell’omicidio, ma gli inquirenti, dalla visione dei video registrati dalle telecamere di sorveglianza del bar e delle altre attività commerciali, hanno ritenuto responsabile anche il nipote, Giuseppe Cortese, in quanto in diversi fotogrammi lo stesso viene, più volte, visto impugnare l’arma del delitto. Il vicequestore ha tenuto a precisare, inoltre, che i suoi agenti hanno notato il Cortese lavarsi, nervosamente e più volte le mani, tale azione giustifica – secondo gli inquirenti- il perché lo stub ha rilevato una minore presenza di polvere da sparo sulle mani dell’imputato. Il testimone ha illustrato anche tutti gli elementi che hanno condotto ai numerosi capi di imputazione, indicando anche le modalità di rinvenimento, all’interno dell’hotel Concordia gestito dal Pezzaniti, dell’arma del delitto e di un altro revolver entrambi con matricola abrasa e del sequestro di ben 365 cartucce.

Successivamente sono stati escussi a teste i dipendenti del bar Moka i quali, seppur dopo diverse contestazioni effettuate anche dai difensori delle costituite parti civili, gli avvocati Emanuele Procopio, Fabrizio Gallo, Gessica Tassone, Simona Manno ed Agnese Garofalo, hanno confermato che a portare l’arma sul luogo del delitto è stato Cortese Giuseppe e che lo stesso, seppur allontanatosi per un breve momento, e’ ritornato verso il povero Stefano D’Arca in compagnia del nonno.

Anche i testimoni oculari hanno ricostruito la vicenda omicidiaria specificando, a seguito delle contestazioni delle difese, di non essere sicuri di chi materialmente avesse premuto il grilletto, ma che negli istanti precedenti l’esplosione dei sette colpi, la pistola era in mano a Cortese Giuseppe. La difesa degli imputati, gli avvocati Francesco Laratta, Ilda Spadafora e Aldo Truncè, hanno provato a smontare la tesi sostenuta dall’accusa.

Infine la Corte hai rinviato il processo all’udienza dell’8 ottobre per l’esame dei due testi del Pubblico Ministero prevedendo, inoltre, la visione in aula dei filmati delle telecamere presenti all’interno e all’esterno del bar Moka e davanti agli altri esercizi commerciali limitrofi alla scena del crimine.

Come si sono svolti i fatti che hanno portato all’uccisione di Stefano D’Arca

La lite tra D’Arca e Cortese sarebbe degenerata la notte del 7 marzo alla chiusura del bar Moka di Luciano Cortese padre di Giuseppe, per la perdita di una schedina. Stefano D’Arca avrebbe danneggiato una zuccheriera e una vetrina, forse era ubriaco. Giuseppe Cortese chiamò il padre Luciano che, con l’ausilio di alcuni dipendenti, separò il figlio e D’Arca, ma neanche lui riuscì a riportare la calma.

Allora il giovane chiamò il nonno, che abita a due passi da lì ed è il titolare dell’hotel Concordia.

Lo stesso Giuseppe Cortese a quel punto prese una pistola in uno sgabuzzino e tornò sul posto, ritrovandosi con D’Arca che inveì verbalmente. «Ti sei preso una pistola per spararmi?».

Quindi D’Arca venne allontanato dal bar dal padre del ragazzo che, a quanto pare insieme al nonno, a quel punto affrontò D’Arca, che con atteggiamento di sfida disse al giovane che non avrebbe avuto il coraggio di sparare.

Il nonno sostiene di aver impugnato lui l’arma e di aver sparato.

Sette i colpi partiti da quella maledetta calibro 7,65 con la matricola abrasa, cinque dei quali raggiunsero al petto D’Arca, che morirà in ospedale poco dopo.

Il nonno chiamò l’ambulanza del 118 e la polizia, dichiarando: “abbiamo sparato a qualcuno che ci ha aggrediti… ci siamo difesi”. Ma la polizia intervenuta sequestrò a casa del nonno un’altra pistola clandestina. La vicenda fu ricostruita rapidamente dagli agenti della Squadra Mobile della Questura grazie anche alla visione delle immagini registrate dagli impianti di videosorveglianza, da cui emerge un quadro inquietante.

“Quando torno in aula, non vedo nessun pentimento, non hanno rispetto per me e per mia figlia” ha detto Valeria vedova di Stefano d’Arca al termine dell’udienza. “Mio padre è stato ucciso due volte, – spiega la figlia della vittima Grazia D’Arca che non trova pace per l’accaduto – “una dai suoi carnefici, e viene ucciso ogni qualvolta incrocio  i loro sguardi freddi e senza un minimo di pietà, crediamo  nella giustizia e ci auguriamo di ridare la dignità e la giustizia che Stefano meritava”.

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