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Cinema & Teatro

L’orto americano, l’horror gotico di Pupi Avati sede spettrale di autenticità

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L'orto americano film Pupi Avati
Tempo di lettura: 5 minuti

INTERVISTA. L’orto americano, horror gotico di Pupi Avati, prosegue il cammino verso il successo sia di critica, sia di pubblico. Abbiamo chiesto al regista bolognese di scendere negli “abissi” e temi della pellicola.   

Sussurrano le voci dei morti. Fendono l’aria di panorami italiani e americani tra cielo e specchi d’acqua. E quando lo fanno, entrano nell’orecchie con la stessa forza di una sega a chitarra e l’eco di una scomparsa che ossessiona. Il messaggio che portano ai vivi, in questo caso, è: “il cinema originario è disseppellito”; merito di Pupi Avati con L’orto americano.

Horror gotico, ispirato all’omonimo romanzo, che riporta il regista bolognese al cinema di genere. E non solo lui, perché in questa pellicola resuscitano Hitchcock, Siodmak e Rossellini insieme, per banchettare con Pupi e gli spettatori al tavolo del cinema, quello vero. L’opera autobiografica – nelle sale dal 6 marzo – accoglie nel primo dopoguerra italiano con un religioso bianco e nero. Il caso vuole che un giovane (Filippo Scotti) in piena vertigine esistenziale e aspirazione letteraria si innamori di una nurse dell’esercito americano. Uno sguardo fulmineo per una certezza: è lei la donna della sua vita.

Un anno dopo nel Midwest americano in cerca d’ispirazione scopre di vivere a un passo dalla casa della lei agognata. A separarli un orto e l’ennesimo scherzo del caso: lei è scomparsa; nessuno sa più nulla. A rivelarlo la madre anziana della ragazza. Il mistero riaccende l’ossessione: trovarla. Inizia così la ricerca della ragazza perduta che lo riporta in Italia, per un finale tra suspense, brivido e inquietudine a ogni scena.

E se è vero che i morti stanno sempre con noi e la loro presenza porta anche all’ispirazione e all’opera della vita, com’è stato per Pupi Avati, forse questo aldilà con le sue anime dovremmo denudarlo di macabro e timore, perché capace di fornire la spinta o la rinascita del fuoco fatuo della propria identità.

L’idea de “L’orto americano” gli è stata suggerita, ha detto, da una lista di morti. Chi più di tutti ha parlato chiaro?

«Mia madre, perché se n’è andata 20 anni fa lasciando un vuoto incolmabile. Ancora oggi quando ho dei problemi dico: “Chiamo la mamma”. Lei viveva una tradizione della cultura contadina anteguerra in cui, prima di dormire, diceva il rosario dei morti: ripetere i nomi delle persone care che se n’erano andate. Questa cosa l’ho ereditata da lei e l’ho ampliata anche a livello estetico.

Nella mia stanza c’è una sorta di parete “La via degli angeli”, dove ci sono appese 200 piccole fotografie con le persone che mi sono state care e riassumono gran parte della mia vicenda umana. Prima di andare a letto le “convoco”, dico i loro nomi sentendomi rassicurato. Una sorta di terapia che fa sì che tutte le angosce di una persona della mia età svaniscano. Sento la loro presenza, sarà suggestione, effetto placebo o demenza senile; tuttavia, mi serve per addormentarmi in pace».

 

Nel suo film predominano influenze neorealiste, dei film americani anni ‘40 e l’horror gotico. Com’è stato tornare a questo genere che non lo ha mai tradito?

«Molto bello, perché ho aggiunto a questo genere il bianco e nero, componente fondamentale del racconto che si svolge nei primi anni ‘40, subito dopo la liberazione. L’Italia e l’America del cinema di Hitchcock e Rossellini, evidentemente mi hanno fortemente influenzato, così ho fatto un film in bianco e nero tentando di rendere come un matto quel tipo di cinema».

 

La scelta del bianco e nero è venuta da suo fratello. Ma quando ha capito lei, invece, che era la scelta vincente?

«Al primo ciak. Quando sono passato da guardare la scena che avevo realizzato, gli attori e l’ambiente di Cinecittà al monitor, che invece restituiva la stessa scena in bianco e nero. Ho avuto la sensazione per la prima volta nella mia vita, dopo 55 film, di aver fatto il cinema. Il primo film della mia vita».

Nel film emerge la ricerca ossessiva di una donna perduta. Quanto la ricerca di qualcosa che sia uno scopo, una persona o un obiettivo, può alimentare la scintilla della propria vita?

«Le persone che non si danno un obiettivo o riferimento di un percorso per riuscire a conseguirlo sono persone, secondo me, che si sono accontentate troppo presto e rassegnate a una vita di quotidianità. Un po’ anche noiosa, forse, rassicurante ma anche banale; priva dei rischi e quell’otto volante che è invece la vicenda umana. Io faccio un lavoro che è un mestiere d’azzardo.

Tutte le volte che fai un film è come giocarti la vita: ti esponi al rischio di essere completamente rifiutato. Tuttavia, è una vita veramente vissuta. Ci sono persone che invece amano la quiete, la panchina o la sdraio sulla spiaggia; cose che mi fanno terrore».

 

Invece la sua ricerca ossessiva per quanto riguarda il cinema su cosa si è focalizzata?

«Cercare di riprodurre le mie emozioni e renderle universali. Confrontarmi con gli altri e scoprire che siamo molti più simili di quanto non ci vogliono far credere. Le persone soffrono, gioiscono, si rassegnano o combattono tutte più o meno per le stesse ragioni.

Quando non lo fanno e cercano situazioni alternative a quello che sono le mode dell’omologazione, rischiano molto. Questo è il mio caso, rischiamo molto tuttavia ci produciamo anche una nostra identità che si contrappone a quella delle masse. Ognuno di noi dovrebbe sottrarsi alla seduzione di assomigliare a tutti».

“Con Barbara accanto si poteva guarire da qualunque ferita” si dice nel film. Oltre a quello dei morti, crede al potere salvifico dei vivi nella propria vita?

«Le persone, specialmente, le nuove generazioni che ho frequentato di più essendo un insegnante di recitazione, penso siano prive di quel coraggio che occorrerebbe per poter in qualche modo salvarsi dall’appiattimento. Mettersi in una condizione in cui riesci a dire prima di morire chi sei o chi sei stato è un problema che si pongono in pochi. Le persone, in genere, hanno molta più curiosità degli altri invece che di sé.

Molte scompostezze, fra le quali la più grave l’omicidio o il femminicidio, ad esempio, accadono perché una persona non è stata ascoltata, ha vissuto un dramma interiore che non è stato capace di gestire da sé e non ha avuto nessuno in quel momento che ascoltasse la sua follia e cercasse di riportarlo alla normalità. Per questo arrivano quei gesti scomposti, tremendi e impensabili che fanno le persone disperate quando avvertono intorno a loro solo il silenzio».

 

Se dovesse descrivere la carriera cinematografica dagli esordi a oggi quali parole userebbe? 

«Sfida continua. Anche in questo caso ne “L’orto americano” mi viene riconosciuto – con un esito critico importante che mi lusinga – il coraggio di raccontare in un modo inusuale, fuori dalle mode e cercando di non appoggiare i miei racconti sulle spalle delle star. Raccontare nel modo più compiuto senza preoccuparmi se questa cosa funziona oggi, ieri o domani. Cercando di assomigliare a me stesso in quello che faccio».

 

Ancora non ha ricevuto nessuna critica negativa. Come la prenderebbe se arrivasse?

«Male, perché sono suscettibile (ride)! Ne ho avute tante di brutte critiche nella mia carriera, però devo dire l’ho presa sempre male. Non sono un grande incassatore, come quelli che leggono una cosa e se la buttano alle spalle. Io sono uno scorpione, quindi ho una memoria tremenda».

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