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Diritti umani

La legge è uguale per tutti?

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Intervista all’avv. Daniele Vianello, penalista del foro di Venezia. Diritto alla difesa e processi mediatici

di Anna Maria Antoniazza

L’art. 24 della Costituzione italiana recita: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento. Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione. La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.”

Con particolare riferimento al secondo e terzo capoverso, che distanza sociale esiste tra le disposizioni costituzionali e il regime attuale in cui gli avvocati penalisti svolgono la loro attività? In particolare, è davvero così inviolabile questo diritto? Ed e è così certo che gli “appositi istituti” assicurati ai “non abbienti” siano sufficienti?

Per poter rispondere al quesito postomi, occorre anzitutto una breve analisi dell’istituto.

Il diritto alla difesa, disciplinato dagli art. 24 Cost, art. 6 CEDU e art. 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, è un diritto inviolabile garantito in ogni stato e grado del procedimento (penale, civile, amministrativo, contabile, tributario e di volontaria giurisdizione) di cui beneficiano le parti e alcuni fra i soggetti del procedimento. In particolare, per quanto di nostro interesse, la difesa penale è quella forma di tutela che consente all’imputato di ottenere il riconoscimento della piena innocenza ovvero di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella applicabile per legge.

Con riferimento al secondo e al terzo capoverso della norma da Lei portata all’attenzione, rileva come la Costituzione abbia individuato negli istituti della difesa d’ufficio (art. 97 c.p.p.) e del patrocinio a spese dello Stato gli strumenti di tutela dei “non abbienti”, a fronte della necessità della difesa tecnica.

Anzitutto, il Patrocinio a spese dello Stato è quell’istituto previsto dall’art. 98 c.p.p. introdotto nel nostro Ordinamento per la prima volta con la Legge 30 luglio 1990 n. 217 ed attualmente regolato dal TU in materia di Spese di Giustizia (D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115) dagli artt. 74 ss.

La finalità dell’istituto è quella di garantire il diritto di difesa ai soggetti – cittadini italiani, stranieri o apolidi residenti in Italia – a prescindere dal reddito, mettendo a disposizione la professionalità di avvocati abilitati al gratuito patrocinio iscritti in apposito Albo consultabile online nei siti dei Consigli dell’Ordine.

La tutela garantita dall’art. 98 c.p.p. si sostanzia nell’esonero del soggetto ammesso a determinate spese e nella sostituzione dello Stato in altre. Pertanto, il difensore che richieda la corresponsione delle spese all’assistito ammesso al gratuito patrocinio, porrebbe in essere un illecito disciplinare ai sensi dell’art. 29 del Codice Deontologico Forense.

Al fine di poter usufruire di tale tutela il soggetto richiedente ha l’onere di dimostrare all’autorità preposta di essere in possesso dei requisiti di cui all’art. 76 del TU in materia di Spese di Giustizia. Questo si concretizza nella presentazione presso la segreteria del magistrato avanti cui pende il procedimento, di un’istanza di ammissione autenticata dal difensore (qualora fosse già stato nominato) ove il richiedente, tra le altre, dimostri di essere titolare di un reddito imponibile, risultante dall’ultima dichiarazione, non superiore ad euro 11.493,82 che sarà calcolato, nel caso in cui l’istante convivesse con il coniuge o altri familiari, dalla somma dei redditi di tutti i conviventi. Invero, rileverà il solo reddito personale nel caso in cui oggetto di causa siano i diritti della personalità ovvero nei processi ove gli interessi del richiedente confliggano con quelli degli altri componenti del nucleo familiare con lui conviventi.

Dal 2009 con l’introduzione del comma 4ter dell’art. 76 DPR 115/2002 il beneficio al gratuito patrocinio è stato esteso alle persone offese dei reati ex artt. 572, 583bis, 609bis, 609quater, 609octies, 612bis, nonché ove commessi in danno di minori, dei reati di cui agli artt. 600, 600bis, 600ter, 600quinquies, 601, 602, 609quinquies, 609undecies.

Sono invece esclusi dal beneficio ex art 76 comma 4bis DPR 115/2002  “i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli articoli 416-bis del codice penale, 291-quater del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, e per i reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”.

Orbene, alla luce del quadro normativo qui sopra sinteticamente esposto, ritengo doveroso mettere in luce quelle che ritengo essere le criticità dell’istituto che quotidianamente il difensore abilitato al gratuito patrocinio si trova ad affrontare e che, conseguentemente, ritengo espongano a rischio il diritto di difesa.

Anzitutto, l’avvocato è rimesso alla più totale discrezionalità del giudice, sia per quanto riguarda il compenso economico a lui dovuto dallo Stato per l’attività svolta in difesa del soggetto ammesso al gratuito patrocinio – che risulta molto spesso iniquo e non conforme alle richieste e che viene generalmente elargito a distanza di 4-5 anni dal deposito dell’istanza di liquidazione – sia per quanto riguarda l’effettiva ammissione al beneficio di cui all’art. 79 c.p.p.

Infatti, sebbene il Giudice non abbia la possibilità di entrare nel merito dell’autocertificazione presentata dal richiedente per valutarne l’attendibilità, avendo solo la possibilità di verificare i redditi esposti e di pronunciarsi in base agli stessi, non mancano provvedimenti di rigetto basati su meri sospetti del giudicante circa la genuinità delle auto dichiarazioni, non supportati da successive indagini delegate all’autorità competente.

Emblematico il caso di un cittadino in stato di povertà assoluta al quale non è stato concesso il beneficio del patrocinio a spese dello Stato poiché  “vista l’oggettiva impossibilità di sopravvivenza da parte del richiedente e del proprio nucleo familiare alla luce di un reddito così esiguo, si presume che l’istante sia percettore di reddito non dichiarato ai fini fiscali in quanto provento di attività lavorativa svolta in nero o beneficiario di regalie o elargizioni di congiunti il cui ammontare consente il sostentamento”.

Ulteriore considerazione va fatta in merito all’esclusione dal beneficio del gratuito patrocinio per i soggetti di cui al comma 4bis dell’art. 76 DPR 115/2002, come precedentemente specificato.

Per detti soggetti il reddito “si presume superiore ai limiti previsti” per l’ammissione al beneficio. La ratio della norma è quella di non concedere un’assistenza economica ai soggetti condannati per reati che si presumono lucrativi per il soggetto ritenuto responsabile degli stessi.

Orbene, si ritiene che prevedere una limitazione al gratuito patrocinio per detti soggetti non sulla base delle condizioni di reddito ma sulle risultanze del casellario giudiziario, si risolva in una totale violazione, non solo dell’inviolabile diritto di difesa ma, ancor prima, del fondamentale diritto di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.

Invero, seppur la Corte Costituzionale con la Sent. 139/2010 abbia riformato parzialmente il comma 4bis prevedendo non più una presunzione assoluta bensì relativa di superiorità del reddito rispetto ai limiti previsti, lasciando quindi la possibilità al richiedente di dimostrare di essere in possesso dei requisiti richiesti, ritengo che detta modifica normativa non si concretizzi in una reale interruzione della violazione degli artt. 3 e 24 comma 2 e 3 Cost.

Infatti, affidare al richiedente l’onere di superare la disposizione di cui all’art. 74bis con concretizza molto spesso in una vera e propria probatio diabolica poiché la valutazione è rimessa alla discrezionalità del giudice che, come sopra sottolineato, più volte si affida ai suoi unici sospetti.

Molto spesso, a colmare le lacune della giustizia è lo stesso Professionista che, se nelle possibilità, offre la sua assistenza pro bono.

In che modo una violazione del diritto alla difesa rappresenta una prima forma di privazione della propria liberta? Il diritto penale e di procedura penale hanno una realtà multidimensionale tra sospettati, imputati, arrestati e fermati, carceri e commissariati. Il primo incontro con l’avvocato è spesso tardivo e in condizioni di compressa riservatezza, soprattutto in casi di reati gravi come gli omicidi.

Una delle violazioni del diritto di difesa più reiterate è rappresentata dalle distorsioni attuate dai cosiddetti “processi mediatici”, soprattutto nei casi di omicidio: sono il primo ostacolo all’attuazione di un pieno diritto alla difesa e, dunque, alla libertà personale.

Troppo spesso, infatti, accade che, proprio nei casi più delicati quali quelli di omicidio, violenza domestica o maltrattamenti, le indagini intraprese e svolte quotidianamente da chi cerca di “far luce” sulla realtà dei fatti in nome dell’espressione del diritto di cronaca, la cui funzione è quella di diffondere informazioni di pubblico interesse alla collettività, parallelamente a quelle ufficiali condotte dalla P.G. elide di fatto, e nel modo più aggressivo possibile, i diritti fondamentali che, invece, tutti gli ordinamenti di diritto positivo pongono al centro delle tutele più stringenti e che, mediante il processo penale, si cerca di assicurare a qualsiasi soggetto.

I processi mediatici, purtroppo, spingendo su un comune senso di giustizia e sottolineando l’odiosità di certi delitti, trasmettono notizie in un quadro frammentato della realtà: a volte ciò accade perché spesso coloro che dedicano ore giornaliere a trasmettere fatti di cronaca nera di attualità non sono in possesso di molte notizie che, invece, cercano a tutti i costi di reperire anche attraverso deduzioni e supposizioni, a volte perché determinate informazioni di maggior rilievo sono secretate dalla Magistratura Inquirente per ragioni di opportunità e garanzia del corretto andamento delle indagini.

In queste situazioni, si attua la peggior distorsione di un sistema giuridico liberal-garantista che, attraverso le norme codificate, cerca di raggiungere la verità pura, accertando i fatti mediante prove nel contraddittorio delle parti, secondo schemi e regole ben definite, in modo da evitare le distorsioni che si realizzavano nei secoli che hanno preceduto la codificazione.

Troppo spesso, dunque, accade che ancor prima dell’apertura di un vero e proprio processo penale, e quindi, in assenza di un soggetto imputato nei confronti del quale siano state formalizzate delle accuse da parte dell’autorità giudiziaria, la collettività e l’opinione pubblica abbia già abbastanza elementi per avere una propria idea di chi sia o meno il colpevole di quel delitto, opinione basata su notizie dai parziali o, a volta, assenti riscontri, su fatti storici trapelati in un certo modo che, invece, mai entreranno a far parte di un vero e proprio processo penale perché irrilevanti ovvero non utilizzabili.

Quando un processo diventa mediatico e si rivela il nome di un sospettato rectius indagato, automaticamente si cancella tutto ciò che è il processo penale, ogni termine si svuota del proprio significato e si attende solo la giusta condanna che quel soggetto merita e che tarderà certamente ad arrivare “visti i tempi della giustizia italiana” lasciando l’ormai colpevole a piede libero subito o poco dopo. Al momento in cui, dunque, si rivela un sospettato, l’idea collettiva è del tutto opposta rispetto alla realtà dei fatti e allo scopo del processo. L’indagato dovrebbe godere di determinate garanzie e tutele in quanto costituzionalmente “ancora” innocente e dovrebbe meritare, in qualità di imputato, l’accertamento della sua innocenza dinanzi a Giudici imparziali che conoscono i fatti attraverso le prove processuali formatesi nel contraddittorio delle parti ed in cui ha visto attuarsi il proprio diritto di difesa liberamente. La realtà dei fatti è che il diritto di difesa come limitazione alla libertà personale viene compromesso da subito nei processi mediatici destinati, comunque, a svolgersi dinanzi a Giudici che, in quanto esseri umani, si sono già formati una idea personale come il resto della collettività che brama GIUSTIZIA per le vittime di crimini odiosi.

Tali soggetti, che beneficiano della presunzione di innocenza, sono in realtà, ingiustamente, considerati già colpevoli.

Quello descritto è tra i casi peggiori in cui la violazione del diritto alla difesa rappresenta una prima forma di privazione della libertà personale perché la situazione di partenza non potrà mai più essere ristabilita.

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