Diritti umani
Biram Dah Abeid incontra la Lidu per raccontare l’orrore della schiavitù in Mauritania

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Intervista al Presidente dell’Iniziativa per la Rinascita del Movimento abolizionista in Mauritania(IRA) che descrive la schiavitù nel suo paese, il peggiore dei crimini contro l’umanità
Di Tiziana Primozich
In Mauritania la schiavitù è stata abolita nel 1981, criminalizzata nel 2007 e dichiarata “crimine contro l’umanità” con la riforma costituzionale del 2012. Ma in realtà è ancora praticata e il 20 per cento della popolazione mauritana vive in condizione di schiavitù, in un clima di supremazia dell’uomo bianco, arabo e musulmano a svantaggio del nero che è considerato un oggetto da possedere ed utilizzare. Un orrore inconcepibile nel mondo moderno. Sono questi i temi affrontati durante l’incontro dal titolo “La Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo incontra Biram Dah Abeid (Presidente dell’Iniziativa per la Rinascita del Movimento abolizionista in Mauritania) per esporre il caso della schiavitù nel suo Paese” organizzato dalla Lidu Roma che si è tenuto lunedì 21 novembre presso la sede di piazza d’Ara Coeli. Relatori Antonio Stango (presidente della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo), Alessandro Gioia (presidente del Comitato Romano della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo), Biram Dah Abeid (presidente dell’Iniziativa per la Rinascita del Movimento Abolizionista della Mauritania),Riccardo Noury (portavoce di Amnesty International Italia), Marco Perduca (membro della Giunta dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica).
Ultimo di 11 figli nasce in Mauritania in una famiglia dove il padre era stato affrancato dalla schiavitù ancora nel grembo materno. Una nonna schiava cui, grazie ad una malattia del suo padrone, era stato concesso di veder liberare il nascituro, il papà di Biram Dah Abeid appunto. Una stirpe di schiavi che si interrompe per una fatalità innescando un cambiamento: Biram infatti viene stimolato dal padre ed è l’unico ed ultimo degli undici figli che riesce a studiare, con un obiettivo preciso, riuscire a dimostrare alla Mauritania ed al mondo che non è giusto rendere schiavo un essere umano. Comincia così un percorso di vita dedicato alla lotta non violenta contro l’apartheid che ha portato Biram Dah Abeid a veder riconosciuto il suo impegno dalla comunità internazionale a partire dalle Nazioni Unite, ma che lascia inalterata e sorda agli appelli quella parte di popolazione dominante in Mauritania che ancora oggi utilizza uomini, ma soprattutto donne e bambini, come schiavi senza alcun diritto civile.
Cosa vuol dire essere figlio di schiavi?
È un fardello pesante che mi porto dietro, ma è anche una sfida. Mio padre, benché già alla nascita era stato affrancato dalla schiavitù, aveva capito che solo interpretando i codici e le leggi scritte si poteva venire a capo della verità, e cioè che ogni uomo nasce libero. E così mi ha fatto studiare, perché voleva delle risposte. Lui era stato sposato prima di mia madre con una donna che era schiava, e si era visto portare via sia la compagna che amava che i due figli avuti con lei. Poi l’incontro con mia madre, libera e non schiava, e la nascita di 11 figli di cui sono il più piccolo. Ma non ha mai dimenticato, ed è riuscito a trasmettermi il suo bisogno di conoscere che si è trasformato in necessità di lottare. Essere di fronte a un governo che opprime, che toglie ogni spazio di libertà , di fronte alla persona che lotta contro la schiavitù, ha un prezzo pesante.
Nel tuo paese la Mauritania il 20 per cento della popolazione vive in stato di schiavitù. Quali sono gli ostacoli per abbattere questo crimine contro l’umanità?
La schiavitù nel mio paese fonda la sua esistenza sulla convinzione che la razza bianca, in prevalenza arabi musulmani, è superiore a quella nera. Ci considerano degli oggetti da possedere, utili al lavoro al pari di bestie. Lo schiavo non ha diritti, lavora senza salario e a qualsiasi ora, non ha assistenza sanitaria, è regolarmente picchiato. I maschi, sempre in questa ottica di proprietà, vengono castrati per evitare una progenie impura. Ed è così per tutta la vita di uno schiavo. Alcuni riescono a scappare ma in molti casi non si guardano più indietro. Ci sono anche figli di schiavi che hanno scelto un altro cammino, la sottomissione, che si sono sottomessi al potere e ovviamente il governo li utilizza. Tra loro ci sono persone che si sono presentate contro di noi a Ginevra e New York nelle sedi dell’Onu, con false testimonianze che dicono in sedi internazionali che la schiavitù in Mauritania non esiste. In questi casi essere figlio di schiavi significa negare la sofferenza tua e della tua famiglia e sottometterti invece di lottare e ribellarti per te e per gli altri. Non c’è la coscienza generale, la coscienza etnica è frammentata, l’etnia è frammentata. Non c’è un legame di solidarietà generale contro l’oppressione.
E le donne? Qual è la condizione delle donne in schiavitù?
Le donne sono la parte più toccata dalla schiavitù, i ragazzi quando crescono possono fuggire. La donna spesso a 13 anni ha già tre bambini e non può più fuggire. L’80% degli schiavi sono donne e bambini. Subiscono violenza sistematica, già a 7 anni una bambina è stata violentata più volte, a 10 anni ha già un bambino e spesso muore di parto, tutto regolamentato da un codice di schiavitù che è assimilato alla religione, quindi non c’è via d’uscita. Il padrone quasi per volere divino può utilizzare ogni donna o bambina che sia per ogni suo bisogno, compreso quello sessuale. Tutto questo porta a gravidanze non volute, figli che se sopravvivono saranno a loro volta schiavi. Tutto questo è negato di fronte alla comunità internazionale, ma esiste. Noi abbiamo raccolto tutte le storie di cui siamo a conoscenza in una serie di filmati ed immagini. La comunità internazionale, la Lidu con la Fidh, Amnesty International ed il partito Radicale, possono utilizzare questo materiale per catalizzare l’attenzione del mondo su questo crimine contro l’umanità. Una marcia a Roma contro la schiavitù in Mauritania sarebbe di sicuro un segnale forte per imporre al nostro governo un cambiamento di rotta. Abbiamo bisogno del vostro aiuto