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Delitto dell’Olgiata: un’indagine lunga 20 anni che si poteva risolvere in poche settimane

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Senza un colpevole, le indagini vengono presto messe in stand-by fino al 1993 quando si tenta una strada diversa: si pensa che il delitto sia collegato allo scandalo dei fondi neri del SISDE, vicenda che fece vacillare la poltrona nientemeno che di Oscar Luigi Scalfaro, al tempo Capo dello Stato.

di Luca Rinaldi

Prima di spiegare cos’è il Delitto dell’Olgiata, occorre dire che è un mistero ormai risolto. Inizialmente sembrò un classico delitto della camera chiusa degno dei migliori Arthur Conan Doyle o Agata Christie, ma presto si scoprì che una via di fuga per l’assassino effettivamente c’era ed era stata utilizzata. Ciò che invece mancò per tanto tempo fu proprio l’identità dell’assassino e così il caso si trasformò in quello che le serie televisive americane moderne chiamano un Cold Case, un caso freddo, perché per vent’anni rimase irrisolto, nonostante le varie e suggestive piste seguite, gli interrogatori, i molteplici sospetti, le intercettazioni telefoniche e le svariate analisi di laboratorio.

Eppure, quelli dal 1991 in poi, sono stati vent’anni di progressi tecnologici in cui la criminalistica ha fatto passi da gigante, tanto che è solo nel 2011, grazie a un vero e proprio colpo alla C.S.I. di tecnici chiusi in un laboratorio ad analizzare tracce di DNA, che si è infine riusciti a capire chi fosse il responsabile.

Tutto molto avvincente, degno di un giallo di prim’ordine, se non fosse che l’intera faccenda si sarebbe potuta chiudere pochi giorni dopo il delitto, senza alcuna necessità di analizzare DNA, senza compiere alcun interrogatorio, senza tirare in ballo, come è stato fatto, lo scandalo SISDE e conti svizzeri sospetti. Sarebbe bastato semplicemente che gli inquirenti avessero fatto meglio il loro lavoro, guardando solo un po’ più in là del proprio naso. Insomma, se fosse stato un giallo o una serie tv, l’espediente per il quale il responsabile non è stato scoperto subito, sarebbe stato definito un grosso buco di trama, considerato che si è trattato di pura e semplice negligenza, di nient’altro che una mancanza di accuratezza nelle indagini da parte delle forze dell’ordine.

Ma cosa è successo, dunque? Iniziamo col dire che la vittima, la quarantaduenne Alberica Filo della Torre non era proprio una persona comune, ma era una ricca contessa che era solita frequentare la buona società romana e occuparsi di opere filantropiche. Abitava in una villa dell’Olgiata, quartiere residenziale a nord di Roma, dove, la mattina del 10 luglio 1991, erano in atto i preparativi per la cena di anniversario di nozze tra lei e l’imprenditore Pietro Mattei. Parecchie persone erano dunque presenti tra familiari, domestiche, babysitter dei figli della coppia e operai.

La linea temporale degli eventi – fondamentale in qualsiasi indagine – come verrà poi ricostruito dagli inquirenti, è in questo caso molto chiara e delineata: tra le 7:00 e le 7:30 incominciano i preparativi per la festa; verso le 07:45 la cameriera Alpaga porta la colazione in camera alla contessa; verso le 8:30 la contessa scende al piano inferiore, per poi rientrare in camera alle 8:45; alle 9:15 e poi ancora tra le 10:30 e le 11:00, la cameriera e la piccola Domitilla, figlia della contessa, bussano alla porta della donna, chiusa dall’interno, senza però ottenere risposte; trovata una seconda chiave le due finalmente riescono a entrare nella stanza dove rinvengono il corpo della donna steso a terra, con le braccia aperte e un lenzuolo insanguinato ad avvolgerle la testa. Chiamati i carabinieri, da qui in avanti passa tutto nelle mani delle forze dell’ordine.

Ma cos’è successo in quella mezz’ora fatale, dalle 8:45 alle 9:15? L’autopsia rivelerà che la contessa è stata tramortita da un corpo contundente, probabilmente uno zoccolo, e in seguito strangolata a morte. Alcuni gioielli mancano dalla stanza, tanto che si pensa siano stati trafugati dall’assassino in cerca di un facile bottino. Ma già a questo stadio gli inquirenti prendono una strada diversa da quella che pare la più evidente: non si concentrano sul movente della rapina, in quanto altri gioielli erano ancora presenti in camera e non sembrava che l’assassino avesse perso tempo a cercarli, ma pensano si tratti di delitto passionale, che può spiegare un eventuale raptus dell’assassino e il conseguente strangolamento.

Le indagini inizialmente si indirizzano sulle persone con cui la vittima poteva avere a che fare e di cui si fidava: eliminato il marito, in quanto già al lavoro dalla mattina presto, i sospetti si spostano su conoscenti e lavoranti della villa. Chiunque, con un minimo di conoscenza della casa e del giardino, poteva infatti arrivare indisturbato nella stanza della contessa, considerato l’affollamento di quella mattina. Il primo sospettato è Roberto Jacono, figlio dell’insegnante di inglese dei bambini, un giovane con problemi psichici sui cui pantaloni vennero trovate macchie di sangue. Fu l’esame del DNA a scagionarlo.

I sospetti si spostano allora su Manuel Winston, un cameriere filippino, licenziato poco tempo prima proprio dalla contessa. Dagli inquirenti vengono anche svolte intercettazioni telefoniche e condotte analisi del DNA su alcune macchie di sangue trovate sul lenzuolo e sull’orologio della contessa e non appartenenti alla donna. Non si riescono a ottenere però risultati certi che correlino il DNA del sospettato alle macchie ematiche e così anche Winston viene scagionato. A quel punto gli inquirenti ritengono inutile il controllo delle dieci bobine di registrazioni telefoniche prodotte con le intercettazioni sul cellulare dell’uomo.

Senza un colpevole, le indagini vengono presto messe in stand-by fino al 1993 quando si tenta una strada diversa: si pensa che il delitto sia collegato allo scandalo dei fondi neri del SISDE, vicenda che fece vacillare la poltrona nientemeno che di Oscar Luigi Scalfaro, al tempo Capo dello Stato. Tra i coinvolti nello scandalo anche Michele Finocchi, un amico della contessa, presente oltretutto quella fatidica mattina in villa. La cosa risulta sospetta e la nuova pista porta gli inquirenti a controllare i conti svizzeri della contessa, ma in essi si scoprirà che non c’è proprio nulla di sospetto, né tantomeno è sospetta la presenza di Finocchi in villa, in quanto semplice amico di famiglia, preoccupato per la sorte della donna.

Negli anni, poi, cambiano gli inquirenti, nuovi procuratori prendono il comando dell’indagine e ogni volta gli sforzi vengono scoraggiati da un nulla di fatto. Solo il marito della contessa, Pietro Mattei, sembra intenzionato a non demordere, chiedendo nel 2007 ulteriori analisi del DNA sulle macchie di sangue, alla luce delle nuove tecniche di laboratorio, che però ancora una volta non portano a risultati certi. Il Mattei continua comunque a opporsi con forza ai ripetuti tentativi di archiviazione del caso, finché un nuovo PM, Francesca Loy, affida ai RIS, il Reparto Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri, il compito di analizzare nuovamente il sangue sul lenzuolo e sull’orologio della contessa. È solo a questo punto e grazie alle più recenti tecniche di analisi del DNA del tempo, che su tali oggetti vengono trovate inequivocabilmente le tracce ematiche dell’assassino. Si scopre essere proprio quel Manuel Winston già sospettato e scagionato una volta proprio grazie ai test genetici precedenti.

Si scopre che quella mattina fatidica, il filippino era entrato di soppiatto nella villa approfittando della confusione, era salito nella camera della contessa per parlare del lavoro che aveva perso, notando subito alcuni gioielli in bella vista. La donna, presa alla sprovvista dall’intruso, aveva urlato e così era stata aggredita con uno zoccolo e strangolata con un lenzuolo. L’assassino, afferrati quei pochi gioielli, era scappato da una portafinestra, percorrendo poi i tetti della tenuta per uscire indisturbato.

Il colpevole si toglie così, dopo vent’anni, il peso dalla coscienza e confessa, venendo poi condannato a 16 anni, confermati in appello. È il 2011 e giustizia è finalmente fatta. Grazie al progresso delle tecniche investigative, grazie alla tenacia di un uomo, il Mattei, che non si è mai arreso e alla fiducia accordatagli dall’ennesimo PM, la Loy, grazie ai professionisti del RIS che sono riusciti a trovare ciò che tecnici, evidentemente meno preparati, non erano riusciti a scovare in anni di esami di laboratorio.

Eppure, è sempre dalla Loy che arriva la nota dolente per quello che sembra un successo a tutto tondo, un felice coronamento di anni di tentativi infruttuosi. Il PM, infatti, riesaminando tutti gli atti di indagine, nota le intercettazioni fatte a Winston ai tempi dei primi sospetti, quelle famose bobine rimaste in archivio e mai ascoltate. Le ascolta lei e scopre che in quelle intercettazioni c’era anche la registrazione di un colloquio tra Manuel Winston e un ricettatore, al quale tentava di vendere i gioielli rubati alla contessa. Una prova inoppugnabile mai presa in considerazione, perché ci si è fidati troppo in fretta delle risultanze delle analisi di laboratorio, a quel tempo evidentemente non accurate e tecnologicamente non avanzate come in seguito e perché coloro che in vent’anni si sono succeduti a capo dell’indagine e che avrebbero potuto e dovuto analizzare tutte, ma proprio tutte, le prove raccolte, hanno mancato nel loro compito.

E allora viene difficile considerare un caso chiuso con l’assicurazione del colpevole alla giustizia, come un successo, perché troppe sono state le possibilità di arrivare alla soluzione ben prima di quei vent’anni, così come altrettanti sono stati gli errori, le mancanze, le negligenze degli inquirenti e dei tecnici coinvolti, tra tentativi troppo frettolosi di archiviazione del caso, analisi di laboratorio evidentemente superficiali e prove, vedi le intercettazioni, addirittura mai prese in considerazione e che avrebbero portato alla risoluzione del caso in poche settimane invece che in venti lunghi anni.

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