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Attualità

Strage di Villarbasse: quando calò la nebbia sulla pena di morte in Italia

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Fu l’ultimo episodio, avvenuto nell’immediato dopoguerra, in cui vennero emesse delle condanne a morte e convinse i governanti a cambiare per sempre il nostro ordinamento giuridico. Eliminata la condanna a morte, come massima pena è rimasto l’ergastolo.

di Luca Rinaldi

Quando si parla di cronaca nera in Italia, la mente va subito ai grandi processi mediatici degli ultimi anni: Cogne, Novi Ligure, Erba, Garlasco, solo per citarne alcuni. Ci si spinge tristemente col pensiero fino a Falcone e Borsellino o ancora più indietro: Aldo Moro, la Stazione di Bologna. Ma è difficile andare più in là, forse perché i problemi, subito dopo la guerra, erano altri, e di morti ce n’erano già stati abbastanza durante il conflitto. Eppure, c’è stato un evento di cronaca nera in Italia che ha segnato un’epoca per la nostra penisola, che ha scosso l’opinione pubblica tanto quanto i suddetti delitti e che, volente o nolente, ha cambiato per sempre il nostro ordinamento giuridico e le nostre coscienze.

Era il 20 novembre del 1945, nell’immediato dopoguerra, quando si consumò quella che verrà poi ricordata come la Strage di Villarbasse. A quel tempo, le forze di polizia in Italia erano costituite ancora da militari anglo-americani, e il sentimento fascista e quello partigiano dividevano ancora gli italiani, nonostante la caduta di Mussolini e la fine della guerra. Le primissime ipotesi della polizia alleata sui responsabili della strage puntarono proprio in tali direzioni: fascisti in cerca di riscatto con un’ultima azione violenta oppure partigiani che non volevano smettere di combattere?

Ma cos’era accaduto nella Cascina Simonetto a Villarbasse (TO), di proprietà dell’avvocato Massimo Gianoli, nella notte tra il 20 e 21 novembre del 1945, sembrava un mistero. Come potevano essere scomparsi in una notte sia il proprietario che tutti gli operai e i domestici che abitavano la cascina? E perché, quando alcuni braccianti arrivarono la mattina dopo, trovarono solo un bambino di 3 anni, che vagava piangendo, solo e infreddolito, tra le stanze della tenuta?

Non bastarono 8 giorni di ricerche tra le campagne, i canali e i casolari nei dintorni e non servì spingersi fino alle montagne per trovare gli scomparsi. L’ipotesi di allontanamento volontario fu presto scartata: nessuno della cascina avrebbe abbandonato il bambino di proposito. Le congetture su fascisti e partigiani si rivelarono presto infondate. Si pensò allora a un rapimento, ma di segnali che qualcosa di più grave era accaduto se ne trovarono parecchi: tracce di sangue su un cappello, tracce di sangue nella cantina, tracce di sangue su una giacca abbandonata nella vigna. E fu proprio la giacca insanguinata ad aprire una nuova pista, la pista siciliana, grazie all’etichetta con la scritta “Caltanisetta” che recava l’indumento.

Solo il nono giorno, un mugnaio dipendente dell’avvocato, notò casualmente alcuni fili d’erba uscire da una cisterna interrata sotto il pavimento dell’aia. Decise di aprire la botola e rinvenne alcuni corpi. Anche l’ipotesi di rapimento cadde così nel peggiore dei modi.

Carabinieri e vigili del fuoco intervennero, ripescando dalla cisterna dieci cadaveri in decomposizione, apparentemente uccisi a bastonate. L’autopsia rivelerà essere stati gettati in acqua ancora vivi, con mani legate dietro la schiena e con blocchi di cemento assicurati ai piedi. Sono i corpi dell’avvocato Gianoli, della sua domestica Teresa Delfino e di altre otto persone: l’affittuario Antonio Ferrero, la moglie Anna, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, i due mariti di queste e il nuovo lavorante Marcello Gastaldi. La sera fatidica, si scoprì in seguito, stavano festeggiando la nascita di una nipotina di Ferrero. Era presente anche un bambino di tre anni, l’unico risparmiato dalla strage perché non in grado di riconoscere i responsabili.

Iniziarono le indagini e passarono quattro mesi tra interrogatori, false piste, perquisizioni, sospetti infondati e arresti errati. Nel frattempo, già a dicembre, la polizia alleata aveva rimesso l’indagine a quella italiana, riconsegnandole i pieni poteri sulla vicenda e scaricando convenientemente la patata bollente di un caso apparentemente senza spiegazioni.

La svolta arrivò con il ritrovamento di un frammento di tessera annonaria a nome Giovanni D’Ignoti, palermitano di Mezzojuso. Siamo a marzo del 1946 e finalmente il primo dei responsabili viene arrestato a Torino. In carcere, a D’Ignoti viene fatto credere di essere però l’ultimo degli arrestati e che i suoi complici, nella realtà ancora sconosciuti, abbiano già dato la loro versione dei fatti. D’Ignoti confessa, facendo nomi e cognomi e i carabinieri possono così assicurare alla giustizia anche i siciliani Francesco La Barbera e Giovanni Puleo, tornati nel frattempo a Mezzojuso. Il quarto assassino, Pietro Lala, ha già avuto la sua punizione: si scopre essere stato ucciso in Sicilia in un regolamento di conti mafioso.

Dalle confessioni dei tre si ricostruisce la vicenda: si trattava di una rapina, in cui il Lala fungeva da basista, in quanto mesi prima aveva lavorato come mezzadro nella cascina. Era venuto a sapere che l’avvocato Gianoli teneva in casa parecchi contanti. I tre raccontano così l’irruzione in cascina Simonetto fatta nella notte del 20 novembre, con il volto coperto da un fazzoletto e con le pistole in pugno. Rivelano anche che il fazzoletto di Lala all’improvviso gli era scivolato dal viso e che questi era stato riconosciuto dagli ostaggi. La soluzione trovata dai quattro ladri era stata quella di non lasciare testimoni, con il risultato che solo il piccolo di tre anni, che dormiva al momento dell’irruzione, si era salvato dal pestaggio e dall’annegamento nella cisterna utilizzata per raccogliere l’acqua piovana, ritrovandosi la mattina dopo a vagare solo per la cascina deserta. I quattro se ne andarono con un relativamente misero bottino: 200.000 lire, qualche salame, dieci fazzoletti e tre paia di calze. Questo il prezzo di dieci vite umane.

Il risultato del processo è categorico: condanna alla pena capitale. La Cassazione conferma e l’opinione pubblica è talmente indignata e sconvolta per il massacro, che non ha dubbi: li vuole morti. La reazione della popolazione è talmente forte che il Capo dello Stato provvisorio De Nicola non può fare altro che respingere la grazia chiesta dai difensori dei tre assassini, nonostante in Italia si parli già di eliminare la pena di morte dall’ordinamento giuridico della futura Repubblica. Quello di Villarbasse rimarrà, proprio per il grosso impatto avuto sulla popolazione, l’unico caso di condanna a morte portata a compimento quell’anno. Le altre condanne previste verranno infatti sospese e in seguito commutate.

Si arriva così al 4 marzo del 1947 e al poligono delle Basse di Stura, a Torino, in una mattinata di nebbia bassa e densa, si consuma l’ultima esecuzione capitale per crimini comuni comminata in Italia. (Per ragioni di guerra invece, due giorni più tardi, ci sarà a La Spezia l’esecuzione della cosiddetta Banda Gallo, composta da alcuni appartenenti alla Repubblica Sociale Italiana, macchiatisi della deportazione di migliaia di persone nei lager tedeschi durante la guerra).

I tre uomini responsabili del massacro di Villarbasse vengono bendati e fatti sedere su sedie di legno, dando le spalle ai poliziotti armati. Delle armi schierate solo la metà è carica, le altre sono a salve, per lavare la coscienza dei 36 boia che formano il plotone d’esecuzione.

Per tutti gli altri, per il Capo dello Stato De Nicola, per i giudici della Corte d’Assise e per quelli di Cassazione, ma soprattutto per tutti gli italiani che quel giorno hanno gridato a gran voce “Fuoco!”, ci ha pensato la nebbia di marzo a cancellare definitivamente il senso di colpa, calando una volta per tutte su una pratica che oggi in Italia è considerata barbara e che la Costituzione, entrata in vigore solo pochi mesi dopo, il 1° gennaio del 1948, abolirà senza eccezioni.

Con la Strage di Villarbasse sono morte tredici persone. Dieci per la crudeltà umana, delle quali si conoscono gli assassini e ne sono state accertate le responsabilità; tre per la vendetta di un’intera nazione, forse tutta altrettanto responsabile.

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