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Arte & Cultura

Sala Uno teatro presenta: -“HEDDA GABLER” di Henrik Ibsen

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Reza Keradman dedica la seconda produzione dell’anno della Compagnia Sala Uno all’attrice recentemente scomparsa Monica Samassa, brillante interprete per molto tempo della stessa Compagnia

unnamedRoma, 29 febbraio – Un classico della drammaturgia contemporanea, un capolavoro del teatro intimista norvegese: dall’8 al 13 marzo arriva alla Sala Uno di Roma il capolavoro di Ibsen Hedda Gabler. Diretto da Reza Keradman e con un cast di attori concernente Astra Lanz, Daniele Amendola, Beatrice Fedi, Michele de Marchi e Daniel Terranegra, lo spettacolo è la seconda produzione che la suggestiva cornice teatrale dislocata sotto la Scala Santa (S. Giovanni) ospita nel 2016 e che, vista la recente ed improvvisa scomparsa di Monica Samassa, è stato deciso di dedicare all’attrice che ha fatto per lungo tempo parte della Compagnia. La trama è nota: figlia di un enigmatico  generale, Hedda Gabler si è recentemente sposata, probabilmente più per motivi materiali che per passione, con Jørgen Tensman, un uomo vagamente insipido e ottuso che ambisce ad una cattedra universitaria. Al ritorno dal suo viaggio di nozze, un ex amante di Hedda, e rivale professionale di Jørgen, Ejlert Løvborg, irrompe nelle loro vite. Quest’uomo che un tempo viveva una vita alquanto dissoluta, si è rimesso sulla retta via sotto l’influenza di Thea Elvsted, una donna che Hedda non ha mai apprezzato, ed è in procinto di trovare il successo che, invece, potrebbe sfuggire al suo spento marito. Delusa dal suo matrimonio, ed irritata dalla coppia rivale, Hedda si mette in testa di strappare  Ejlert dalle mani di Thea… “Come si intuisce da questo riassunto – afferma Keradman nelle sue note di regia – nonostante la tetra, rigida reputazione di questo testo, l’azione drammaturgica potrebbe benissimo essere quella di un leggero vaudeville, fatta di infantili rivalità e futili invidie. Questa innata serietà va certo rimessa nel contesto della fredda, luterana società scandinava, dove il rispetto sociale si guadagna non attraverso l’affabilità e il calore, ma con la seria e disciplinata dedicazione verso il dovere compiuto. La mia regia, invece, si vuole limitare a raccontare una storia, a illustrarla nel modo più intimo possibile, aggiungendo una leggerezza e una celata ironia sottintesa nel testo, valorizzando ancora di più, la futilità dei nostri più profondi desideri.” A fare da contrappunto a questa personale di chiave di lettura sarà una scenografia labirintica e opprimente, firmata da Valeria Mangiò, che vedrà i  personaggi intrappolati in una prigione dalla quale non sembrano potersi liberare, simbolizzando le catene che in fondo, si sono infilati loro stessi. Nel delicato equilibrio tra un tono giocoso e l’annuncio di una incombente possibile tragedia, si accende una messa in scena che ambisce a trascrivere il corso delle nostre stesse esistenze, dove l’esito delle nostre azioni provoca delle conseguenze inaspettate ed imprevedibili, e dove innocue emozioni possono trascinarci nel più aspro tormento. A corollare il tutto, immergendolo in un’atmosfera iper-reale, un’attenta regia di luci creata e diretta da Hossein Taheri.

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