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Presentato lo studio ‘30 anni di immigrazione romena in Italia’

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Presentata  il 22 marzo presso la Pontificia Università Gregoriana la ricerca “Radici a metà. Trent’anni di immigrazione romena in Italia”,
promossa dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” e realizzata dal Centro Studi e Ricerche IDOS

Il libro “Radici a metà. Trent’anni di immigrazione romena in Italia” esce oltre dieci anni dopo “Romania. Immigrazione e lavoro in Italia” (Roma, 2008) e “Romeni in Italia tra rifiuto e accoglienza” (Roma, 2010), pubblicazioni realizzate da IDOS per Caritas Italiana che hanno significativamente contribuito a contrastare il panico e i pregiudizi romenofobici esplosi all’interno della società italiana nel fatidico 2007, l’annus horribilis dei romeni in Italia.
È stato possibile dare avvio a questa terza “ricerca” grazie alla sensibilità lungimirante dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, con cui IDOS ha condiviso l’obiettivo di contribuire a inquadrare l’immigrazione romena in Italia in tutti i suoi aspetti (positivi o negativi), con correttezza e obiettività.
I romeni, che in Italia erano poco meno di 10.000 in occasione del Censimento del 1991, hanno sfiorato il milione e duecentomila presenze nel 2018 e sono oggi la prima collettività straniera, con 1.076.412 presenze, pari al 20,8% del totale degli stranieri (figura 1).
Alla presenza, crescente e distribuita sul territorio, si associano numerosi indicatori del progressivo inserimento dei cittadini romeni in Italia, imperniati tutti su un solido radicamento a livello familiare.

Laddove non è possibile mantenere la coesione familiare, l’emigrazione delle donne ha creato problematiche sociali, spesso irrisolte, che hanno portato anche a campagne di “moral panic” tese a colpevolizzare in alternativa l’Italia (da qui l’espressione “Sindrome Italia”) o le dirette interessate, che invece si prodigano al meglio delle possibilità per assicurare una continuità emotiva e una guida da lontano. Tuttavia, il problema del “care shortage” e quindi della doppia vulnerabilità di madri e bambini “left behind” rimane ampiamente irrisolto.
Le banche dati INPS riferiscono di 602.312 lavoratori romeni, di cui 128.001 lavoratori domestici. Secondo la Labour Force Survey si assiste ad una significativa differenziazione di genere: le donne risultano prevalentemente occupate nei servizi domestici, come addette non qualificate ai servizi di pulizia di uffici o esercizi commerciali e nel settore alberghiero in qualità di bariste e cameriere; gli uomini, in quattro casi su dieci, nelle costruzioni (soprattutto come muratori). Non è un caso, pertanto, che i comparti di punta siano l’edilizia (20,1%), i servizi alle famiglie (19,6%) e l’agricoltura (7,3%).
Nel 2020, nei due terzi dei casi (68,9%) svolgono una professione poco qualificata o operaia, contro il 29,8% degli italiani; mentre solo il 5,9% riesce a ricoprire una professione qualificata (rispetto al 39,1% degli italiani). Tale condizione migliora solo parzialmente in caso di possesso di un titolo di studio elevato.

Crescente il protagonismo nel settore dell’imprenditoria, dove i titolari di impresa nati in Romania sono 50.230, di cui 30.426 nelle costruzioni. Negli anni più recenti l’imprenditoria romena ha trovato nuova linfa grazie alla progressiva apertura a nuovi ambiti di attività, trainata dal ruolo crescente delle donne.
Nel 2020 il valore aggiunto generato dai lavoratori stranieri in Italia è stato pari a 146,7 miliardi di euro, cioè al 9,5% del PIL, e tenuto conto che i romeni in Italia rappresentano oggi il 20,8% della presenza straniera, è doveroso riconoscere ai lavoratori romeni di contribuire ogni anno ad almeno il 2% del PIL italiano.


La crisi pandemica (con i vari regimi di lockdown, le chiusure di frontiera temporanee, le quarantene e l’attivazione dei green pass), ha inferto un duro colpo allo stagionalato dei romeni e prodotto un peggioramento delle condizioni lavorative ed economiche delle presenze stabili, favorendo nell’immediato un’ondata temporanea di ritorni, la cui sostenibilità andrà valutata negli anni a venire.
Interrogata attraverso una websurvey, nonostante aver sofferto sporadici episodi di discriminazione, la parte maggioritaria della comunità si sente inclusa e pienamente accettata nella società italiana; il legame creatosi nel tempo ha reso l’Italia quasi una seconda patria, sentimento che è evidente soprattutto tra i giovani, per i quali è sostanzialmente impossibile definirsi interamente romeni o italiani. La complessità identitaria delle seconde generazioni, il sentirsi “mezzo e mezzo” nutrendosi e aprendosi a due radici socio-culturali, rappresenta un valore aggiunto nella odierna società globalizzata, nella quale il loro futuro difficilmente si giocherà solo in un orizzonte ristretto tra Italia e Romania.

Interrogati, infine, sulla percezione della propria identità, la maggior parte dei romeni ha dichiarato di sentirsi un “cittadino europeo” (figura 2). La probabilità di dichiararlo a scapito di “immigrato romeno” o “romeno temporaneamente insediatosi in Italia” e “(futuro) cittadino italiano” cresce con l’aumentare del livello di istruzione e del tempo trascorso nella Penisola.
Alla presentazione sono intervenuti la Cancelleria Sig.ra Adina Lovin, Incaricato d’affari a. i. dell’ Ambasciata di Romania presso la Santa Sede e il Sovrano Militare Ordine di Malta e il prof. Paolo de Nardis, presidente dell’Istituto di Studi Politici S. Pio V.

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