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Nel 70° anniversario della DUDU il Nobel per la pace a Nadia Murad e Denis Mukwege

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Nel 1948, dopo la 2° guerra mondiale Paesi di ogni parte del mondo hanno promesso di difendere la pace e la dignità di ogni essere umano. Ma a settant’anni dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ( DUDU) guerra e miseria sono tutt’altro che debellate.

di Vito Nicola Lacerenza

Oggi 10 dicembre ad Oslo, capitale della Norvegia, si è celebrato il 70° anniversario della Dichiarazione dei diritti umani e, per la storica ricorrenza, sono stati premiati con il Nobel per la pace due attivisti che negli ultimi anni si sono distinti per il loro operato in difesa dei diritti umani: la 25enne irachena Nadia Murad e il medico congolese Denis Mukwege. Entrambi i premiati hanno messo a rischio la loro vita per aiutare persone in fuga dalla guerra, oppresse dalla miseria, dalla violenza e dal terrore. In tale stato, privati di ogni diritto, vivono ancora milioni di persone in tutto il mondo e le Nazioni Unite, che il 10 dicembre del 1948 proclamarono i diritti universali dell’uomo, si sono mostrati incapaci di impedire genocidi, carestie e conflitti armati, tre mali che dal 2014 a oggi hanno letteralmente raso al suolo la Siria, il cui popolo continua a morire chiuso tra due fuochi: quello dei militari russi, iraniani e turchi che difendono il dittatore siriano Bashar al-Assad e quello dei soldati curdi e iracheni finanziati dagli Stati Uniti. Da quattro anni i due schieramenti si fronteggiano senza che nessuno riesca a prevalere sull’altro. Finora gli unici sconfitti sono stati i Siriani che a milioni sono emigrati in Europa, per sfuggire ai raid aerei del regime e ai miliziani dell’ISIS in fuga, che continuano a compiere le loro ultime nefandezze giustiziando innocenti in  nome di una folle dottrina. A lungo i vertici delle Nazioni Unite si sono impegnati a spiegare quanto complicata fosse la situazione in Siria e quanta cautela fosse necessaria prima di intraprendere qualsiasi azione.

Ed effettivamente, la crisi umanitaria siriana era ed è tutt’ora un tema complicato. Eppure le immagini del corpo senza vita di Aylan Kurdy, il bambino siriano di tre anni la cui salma è stata ritrovata coperta di sabbia su una spiaggia della Turchia, luogo da cui i profughi siriani partono per raggiungere l’Europa, ha costretto il mondo a chiedersi se sia stato fatto tutto il possibile per evitare la tragedia in Siria. Sono sempre i più fragili, i bambini, a mettere i governi di fronte alle proprie responsabilità. A far comprendere all’opinione pubblica internazionale l’orrore del conflitto in Yemen non sono state le sofisticate analisi degli esperti, ma le immagini del corpo di Amal Hussain, la bambina yemenita morta per denutrizione, quando ormai la sua pelle, secca per la disidratazione, lasciava intravedere con chiarezza l’intero scheletro. Mentre Amal Hussain moriva di fame, USA, Gran Bretagna e Francia vendevano armi all’Arabia Saudita, il Paese promotore della guerra in Yemen che ha provocato la morte di decine di migliaia di innocenti. Il ripetersi nel corso degli anni di tali tragedie umanitarie dovrebbe insegnare alle nazioni industrializzate e ricche che “la solidarietà del genere umano è una necessità pressante”, come ha detto il filosofo tedesco Immanuel Kant.

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