Diritti umani
Mauritania: schiavizza le sorelle e viene condannata a vent’anni di carcere
Nel Paese africano lo sfruttamento degli esseri umani è illegale, ma ancora diffuso nella società
di Vito Nicola Lacerenza
Ar-Rabiaa Mint Hammadi è una donna mauritana condannata a 20 anni di carcere per avere ridotto in schiavitù le sue due sorelle. Per la sfruttatrice si trattava semplicemente di “badare ai bisogni” delle familiari, sottoponendole a qualche lavoro da svolgere gratis. In virtù della strettissima parentela. Il giudice, però, ha respinto la tesi presentata dalla donna, infliggendole la pena di 20 mesi di detenzione. Misura stabilita dalla legge anti-schiavitù, varata dalla Mauritania, Stato ad ovest del continente africano, nel 1981.
Data storica, considerando che il Paese sahariano è stato l’ultimo ad abolire la schiavitù, ma che non ha sancito la fine del fenomeno, radicato nella cultura del Paese, rimasto per secoli in balìa dei trafficanti di uomini nordafricani, i cui discendenti, di cittadinanza mauritana, hanno sempre costretto i loro connazionali di pelle nera a pascolare il bestiame nel deserto del Sahara per un tozzo di pane. L’unica alternativa alle indicibili violenze che gli schiavi subiscono, se rifiutassero di sottomettersi o provassero a sporgere denuncia. “Un atto di insubordinazione ai padroni” provocò nel 2015 un numero talmente alto di vittime, da indurre il governo della Mauritania a dichiarare lo sfruttamento di esseri umani un crimine contro l’umanità. Ma la strada per raggiungere l’emancipazione totale dei cittadini è ancora lunga, sebbene le autorità locali abbiano compiuto enormi sforzi per tentare di realizzarla.