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Attualità

Madre detenuta uccide i due figli nel carcere femminile di Roma-Rebibbia. Sospese tre dirigenti

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La Lidu onlus  interviene sul drammatico fatto di cronaca che ha visto una detenuta di Rebibbia  uccidere i due figlioletti rinchiusi con lei. Discutibile la repentina sospensione da parte del ministro Bonafede dei dirigenti dell’istituto di pena, che appaiono più come capri espiatori  di una politica lontana

LIDU – Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo

Osservatorio per lo Studio dell’Emarginazione Sociale (OSES)

 

Disperazione, vendetta, rabbia, depressione possono spingere – purtroppo – talune madri ad uccidere i propri figli (Medea…). Solo nel nostro Paese, negli ultimi quarant’anni sono avvenuti in media dieci infanticidi l’anno; l’ultimo dramma recentissimo si è consumato nel carcere romano femminile di Rebibbia.

Martedì 18 settembre una detenuta 33enne georgiano-tedesca (Alice Sebesta), arrestata lo scorso 28 agosto per traffico internazionale di stupefacenti (reato che farebbe prevedere una condanna da 6 a 20 anni di reclusione), nel carcere dov’era detenuta ha infatti ucciso i due figli (che teneva con sé nel “nido” dell’istituto) gettandoli da una rampa di scale. Un atto repentino, per il quale il ministro Alfonso Bonafede ed il capo delle carceri Francesco Basentini hanno sospeso immediatamente dal servizio la direttrice reggente Ida Del Grosso, la vice Gabriella Pedote e la comandante di polizia penitenziaria Antonella Proietti; ciò prima d’ogni accertamento delle effettive responsabilità.

Responsabilità, appunto. Nella lunga storia del DAP c’è ancora, evidentemente, qualcuno che dimentica il principio di responsabilità dell’azione amministrativa tutelato dall’art. 28 della Costituzione italiana. Quest’articolo, mentre ascrive ai funzionari nonché ai dipendenti statali e generalmente pubblici una responsabilità diretta sugli atti compiuti in violazione del diritto penale, civile ed amministrativo, estende esplicitamente la responsabilità civile di questi atti  allo Stato e agli enti pubblici (territoriali od istituzionali). Bonafede (nomina sunt consequentia rerum?), allorché afferma che “c’è un mondo, che è quello della detenzione, in cui non si può sbagliare”, sembra non considerare responsabilità che affondano radici in tempi lontani.

Intanto le sospensioni dal servizio sarebbero intervenute come “abbaglio per la gente” senza previamente accertare se il personale di sorveglianza interna abbia segnalato nella detenuta comportamenti strani, se questi siano stati presi nella dovuta considerazione dalla direzione del carcere, se anzi questa abbia richiesto un qualche intervento urgente di natura medico-psichiatrica all’ASL competente per materia dall’anno 2008, se l’ASL abbia risposto con la necessaria tempestività o no, se – insomma – le procedure normative siano state rispettate di pari passo con la sensibilità per un caso umanamente difficile. Se – come apparirebbe – proprio l’intervento sollecitato ma non avvenuto da parte dell’ASL ha determinato una difficoltà sostanziale nell’affrontare il problema comportamentale, che è sfociato nel duplice omicidio commesso da una madre impazzita, allora la responsabilità potrebbe essere “di sistema”.

E lo sfascio del sistema di Sanità penitenziaria – già in difficoltà interne a quell’Amministrazione, per prolungate inadempienze pluriennali (talune delle quali, forse, programmate ad arte in vista di futuri risultati politici…) – cominciò con la legge finanziaria del 2008 (“varata” sotto il Natale 2007 dal governo-Prodi) che fece transitare la Sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, ossia alle singole Regioni ed alle ASL: organismi che divennero, così, competenti esclusivi della materia lasciando all’Amministrazione statale delle carceri còmpiti marginali. Ciò, dapprima, con dissesti considerevoli di Sanità pubblica (pronto soccorso ed altro). L’equivoco nasceva dal reiterato strombazzamento del dover assicurare ai detenuti – per asserite esigenze d’uguaglianza – il medesimo trattamento riservato ai liberi, e ciò nella prospettiva d’un  miglioramento complessivo della Sanità pubblica. Ed invece si sono sovente generate confusioni funzionali ed un’assistenza sanitaria “a macchia di leopardo”, nient’affatto omogenea tra Regione e Regione; soprattutto, spesso si riscontravano gravi insufficienze nel dialogo tra strutture pubbliche di vari livelli, specialmente tra espressioni statali ed espressioni regionali, in un settore così delicato e socialmente importante come la salute, per la quale è indispensabile – tra l’altro – intercettare segnali di disagio mentale e di pericolosità sociale anche apparentemente non visibili (in considerazione, altresì, dello stato particolarissimo in cui le persone recluse si trovano).

Pertanto appare urgente approfondire e risolvere finalmente l’intricato nodo dei rapporti e dei livelli d’integrazione tra amministrazioni pubbliche in materia di Sanità penitenziaria, garantendo a tutti un’efficacia ed una tempestività dei comportamenti amministrativi che si traduca in tutela effettiva per la salute degli esseri umani. Ciò comporta, ad onere ed a coscienza individuale delle Autorità politiche ed istituzionali, l’indispensabile opportunità di porre mano al nostro complicatissimo tessuto normativo in materia di Sanità penitenziaria e di esecuzione penale: i cittadini italiani saranno grati!

 

 

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