Connect with us

Diritti umani

Luana Rigolli e l’isola degli “arrusi”, vite relegate al confino

Published

on

Luana Rigolli e l'isola degli arrusi
Tempo di lettura: 9 minuti

La fotografa piacentina Luana Rigolli racconta la nascita del progetto fotografico “L’isola degli arrusi”. Un percorso storico frutto di ricerche d’archivio e testimonianze sull’arresto e spedizione al confino di 45 omosessuali siciliani.

Volti frontali in bianco e nero, con parte dei tratti somatici in luce e altri “annegati” nella penombra. Schedati speciali, le cui pupille riflettono gli sguardi di chi li ha perseguitati e accusati, solo per aver amato persone dello stesso sesso: sono gli “arrusi”. Così, in dialetto siciliano soprannominano gli omosessuali che nel ‘39 diventano bersaglio del regime fascista e vengono arrestati e relegati al confino nell’isola di San Domino (Tremiti).

A riportare in vita la storia di 45 uomini fra i 18 e 54 anni provenienti da Catania, città che ha visto il maggior numero di arresti è la fotografa Luana Rigolli con il reportage storico L’isola degli arrusi. Piacentina, di origini siciliane da parte di mamma, da tutta una vita percepisce il legame con l’Isola siciliana e le altre italiane, sempre immancabili nei suoi scatti.

E proprio alle esistenze di alcuni siciliani, munita della sua tenacia, curiosità ed empatia dedica il lungo viaggio di ricerca storica cominciato per caso dopo aver trovato il libro La città e l’isola (di Giartosio e Goretti) su alcuni uomini arrestati per “pederastia passiva” (chi nel rapporto sessuale aveva il ruolo passivo, mentre chi assumeva il ruolo attivo non subiva alcuna persecuzione perché considerato “maschio”). Una ricerca laboriosa di identità, luoghi e oggetti eseguita nel 2019 nell’Archivio di Centrale di Stato a Roma e mediante testimonianze ascoltate alle Tremiti, e culminata con mostre in Canada, all’Istituto Italiano di Cultura a Montreal, Bologna, Reggio Emilia, Roma, Massafra, Cefalù e un libro fotografico autoprodotto nel 2022.  

Il 14 febbraio i volti di questi uomini sono stati affissi al Pigneto a Roma da Luana, a manifesto dell’amore inteso come libertà che non conosce limiti e distinzioni di qualunque tipo. Ecco cosa ci ha raccontato di sé e di questo progetto, voluto e guidato quasi dal destino. 

Luana Rigolli autoritratto

Parlaci dei tuoi studi e come sei arrivata alla fotografia

«Ho studiato ingegneria civile, un ambito per cui ho lavorato 5/6 anni, anche se la mia strada era un’altra (già all’Università facevo foto, quindi, è una passione che mi porto dietro ormai da quasi 20 anni). Poi, la crisi nel settore edile e della mia azienda mi ha permesso di iniziare a lavorare come fotografa.  Ho fatto l’assistente per alcuni fotografi a Reggio Emilia, imparando il mestiere e poi nel 2017 ho seguito un corso di fotogiornalismo all’Istituto Marangoni a Firenze con il collettivo Terra Project, che mi è stato utile per sviluppare i miei progetti personali. 

Il lavoro da ingegnere mi ha permesso di acquistare le macchine fotografiche che utilizzo oggi, mentre gli studi scientifici mi hanno insegnato il metodo da seguire per le mie ricerche». 

 

Che tipo di scatti realizzi? 

«Percorro due strade: i lavori commerciali, con i quali vivo, come foto di interni, moda e architettura; e poi c’è la ricerca personale. I miei interessi sono legati alla storia del ‘900, soprattutto al periodo del fascismo, al quale mi sono avvicinata perché mi piaceva l’architettura e alle isole, altra mia grande passione. Quasi tutti i miei progetti ruotano attorno a questi filoni». 

 

Cosa ti riprometti di trasmettere attraverso le tue foto? 

«Ci sono dei temi che mi incuriosiscono e cerco di sviluppare per farli conoscere a più persone possibile. Non ragiono per scatto singolo, ma a progetto. Non mi interessa tanto che una foto sia bellissima dal punto di vista estetico (anche se cerco di farla con un certo gusto) ma è importante che nell’insieme le foto abbiano un senso e mostrino quello che voglio raccontare». 

 

Come si è evoluta la tua visione fotografica dai primi scatti a oggi? 

«Per quanto riguarda il modo di scattare, dal punto di vista estetico ho mantenuto lo stesso stile: luci soffuse, non troppo forti, che richiamano quelle della Padania dove sono cresciuta. Quello che dico sempre è che noi fotografi padani scattiamo come Luigi Ghirri, ma non è un fatto di imitazione; siamo abituati a quella luce lì. Ce l’abbiamo dentro; e a me personalmente da un punto di vista estetico piace scattare così. Cerco questa luce anche nelle isole del Mediterraneo, perché se c’è molto sole non riesco a scattare» 

Luana Rigolli autoritratto 

«La fotografia occupa la maggior parte dei mie pensieri» dici a Mediterraneo. In che modo? Ti andrebbe di lasciarci entrare in uno di essi?  

«Sono sempre con il pensiero alla fotografia, anche quando esco la sera; sono sempre in ricerca di stimoli e progetti da sviluppare. Non appena ascolto storie particolari o poco conosciute, penso subito se possono essere collegate alla fotografia. Anche ora mentre rispondo, mi guardo intorno per vedere se c’è qualcosa che attira la mia attenzione. Sono sempre alla ricerca di stimoli sia mentali, che visivi». 

 

Le tre qualità imprescindibili nelle tue foto? 

«La luce soffusa e le inquadrature con un orizzonte dritto, rigoroso. La terza non saprei…». 

 

Il 14 febbraio sono apparsi al Pigneto di Roma le foto del progetto “L’isola degli arrusi”. Di cosa si tratta e come nasce l’idea?  

«A febbraio 2019 sono entrata in una libreria e, come sempre, sono andata nel reparto storia in cerca di libri che potessero darmi alcune idee per nuovi progetti. Ho trovato un libriccino che si intitolava “La città e l’isola”, e ovviamente l’ho subito preso in mano. Parlava della storia degli omosessuali di Catania confinati durante il fascismo. In quel preciso momento ho capito che volevo raccontare questa storia con la fotografia, prima ancora di leggerlo. Catania poi è stata un caso eclatante da questo punto di vista, in quanto città con più arresti per pederastia passiva (l’accusa che veniva data agli omosessuali), con 45 arresti». 

 

Che tipo di foto hai scattato tu per il progetto? 

«Il progetto è composto da due parti: una di scatti al materiale dell’Archivio Centrale di Stato, in particolare documenti, e un’altra parte alla ricerca di luoghi e oggetti. I volti in totale sono 45 e ho fatto una ricerca sui luoghi che queste persone frequentavano prima di essere arrestati a Catania e alle Tremiti, luoghi di confino. Gli oggetti che riguardano la storia sono un libretto rosso che veniva dato a tutti i confinati italiani quando erano mandati al confino dopo il sequestro dei documenti. 

 Questo libretto rosso l’ho trovato alle Tremiti, anche se non è specifico di uno delle persone fotografate; poi, ho trovato anche il gettone di una sala da ballo di Berlino “El dorado”, un locale gay in funzione fino al ‘32 e poi chiuso dai nazisti. In questa sala non si pagava l’ingresso, ma solo il ballo con un gettone (con due uomini nel fronte, e due donne nel retro che ballano).  

Dubito che a Catania ci fosse un gettone simile a quello di Berlino, però il concetto è simile: si pagava il ballo; quindi, appena l’ho trovato ho deciso di inserirlo nel progetto» 

Luana Rigolli e l'isola degli arrusi

 Com’è andata la ricerca all’Archivio di Stato del materiale? 

«Il problema vero all’Archivio centrale di Stato a Roma, dove ci sono i documenti storici sul periodo al confino di tutti gli italiani durante il fascismo, da consultare gratuitamente, è stato sapere i nomi dei confinati, che sono stati circa 20.000 in tutta Italia e sono catalogati per nome. All’inizio, non conoscevo i loro nomi; sapevo solo che erano 45 uomini di Catania. Ho contattato gli autori del libro “La città e l’isola” per avere una mano con i loro nomi, mi hanno risposto ma non mi hanno aiutato.  

Poi, per caso ho trovato online un file con solo le iniziali dei nomi e mi sono presentata all’archivio; lì mi hanno dato due libri con l’elenco di tutti i confinati italiani con il numero di fascicolo che combaciava con quello del file trovato online. Così, ho consultato i loro documenti e sono riuscita a ricostruire chi erano e cosa facevano. Ho rifotografato le foto, i verbali di arresto, le lettere che scrivevano sia loro, che i parenti per chiedere la grazia, e i documenti delle visite mediche a cui sono stati sottoposti prima di essere arrestati» 

 

Sei riuscita a raccogliere testimonianze di chi ha conosciuto questi uomini? 

«Sia a Catania, che alle Tremiti ho cercato persone che potessero conoscere i 45 uomini. Alle Tremiti, nel 2019, ho conosciuto un signore di 92 anni circa che all’epoca del confino aveva 12 anni e quindi si ricordava questi uomini. Non è riuscito a dirmi molto, ma quando gli facevo vedere le foto qualcosa ricordava. Era figlio di un certo signor Carducci che nel ‘39 sull’isola aveva un’azienda agricola per cui alcune di queste persone lavoravano.   

Per quanto riguarda Catania, ho cercato persone che potessero averli conosciuti una volta tornati dal confino. Qualcuno nell’ambito LGBT l’ho conosciuto, anche se ho avuto poche informazioni e ho scoperto che qualcuno di loro faceva l’insegnante privato». 

 

L’aspetto più complesso di questa tua ricerca visiva?  

«Sicuramente trovare i loro nomi, poi non ho avuto più difficoltà. Per me è sempre stato abbastanza facile fare questo lavoro di ricerca, anche perché ogni volta che avevo un problema si risolveva subito. Mi piace pensare che questa facilità nella ricerca è dovuta a qualcuno lassù che voleva che questa storia fosse raccontata. È vero che di questa vicenda se ne parlava anche prima con il libro che ho citato e una graphic novel, ma forse sempre un po’ sottotono, senza mai un primo piano su queste persone» 

 

Qual è il messaggio che vuoi condividere con questo progetto fotografico? 

«Si parla sempre della persecuzione fascista contro ebrei, opposizioni politici, e minoranze; questa è una storia che non conoscevo. Gli omosessuali non li avevo quasi mai sentiti nominare, quindi mi è sembrato giusto parlare anche di questo aspetto per la memoria di queste persone e per sensibilizzare l’opinione pubblica, perché cadere negli stessi errori si può. Se si conosce la storia questa possibilità si riduce!». 

Ph Luana Rigolli – Isola di San Nicola, Tremiti

 Libertà d’amare chi si vuole che, a distanza di anni, sembra ancora in catene e lo vediamo con atti di violenza e discriminazione. Perché secondo te ancora oggi si fa ancora fatica ad accettare differenti identità di genere e orientamenti sessuali? 

«Faccio fatica a capire persone che non accettano cose che dovrebbero essere ovvie e normali, riconosciute da tutti. Secondo me, riguarda proprio l’essere civile di ognuno di noi, non ne faccio neanche una questione religiosa. I giovani li vedo più aperti e disponibili, rispetto a quelli della mia età e oltre, per quanto riguarda l’orientamento sessuale o il colore della pelle» 

 

Cosa ti ha colpito di più di queste persone mandate al confino? 

«Non erano reietti, ma persone inserite nella società che lavoravano (sarti, barbieri, professori, ricchi di famiglia, solo uno era povero e un altro certificato come “malato mentale”) ed è ancora più brutto pensare che siano stati confinati solo perché omosessuali». 

 

Tra le loro storie ce n’è una che ti è rimasta nel cuore? 

«Il signore Giovanni che poi negli anni ‘90 si è fatto intervistare da Goretti e Giartosio per il libro La città e l’Isola. Ha deciso di parlare e grazie a lui sappiamo molte cose. Poi ce n’è uno che ha lo stesso cognome di mia nonna e un altro che era scultore. Mi ha colpito, perché nelle lettere in cui chiede la grazia fa leva proprio su questo aspetto: voleva lavorare e produrre opere da mandare all’Esposizione universale. Voleva lavorare per l’Italia fascista e diceva che al confino il suo estro mancava, perché non aveva stimoli» 

Ph. Luana Rigolli, nervo di bue usato per punire i confinati che non seguivano le regole

 Che tipo di trattamento avevano le persone confinate a San Domino? 

«Avevano l’obbligo di lavorare, però il lavoro non c’era perché era un’isola disabitata. All’epoca, l’isola abitata era San Nicola, mentre san Domino era quella disabitata dove c’erano solo i campi e gli allevamenti. L’obbligo di lavorare era dovuto al fatto che la diaria giornaliera che passava lo Stato era molto bassa e non riuscivano a comprare il necessario per mantenersi. Agli omosessuali inoltre veniva data una paga giornaliera di 4 lire, mentre a tutti gli altri 8; quindi c’era anche una differenza in questo.

Molti nelle loro lettere si lamentavano che nell’isola non c’era lavoro, delle cattive condizioni di vita e del fatto che ci si ammalava. Qualche fortunato lavorava nell’azienda agricola del signor Carducci e qualcuno che era sarto lavorava per i carabinieri o i confinati politici che erano sull’isola di San Nicola.  

La loro vita trascorreva di giorno in libertà nell’isola e di notte nei cameroni, dove venivano chiusi dai carabinieri». 

 

Nel 1940 però tornarono nelle loro città quanto tempo sono stati al confino? 

«Sarebbe dovuto durare 5 anni (dal ‘39 al ‘44), però poi nel ‘40 è iniziata la guerra e San Domino è stata predestinata come isola per i confinati politici, considerati più pericolosi degli omosessuali.

I 45 arrusi siciliani e 30/40 omosessuali provenienti da altre città sono stati rispediti a casa con un biennio di ammonizione, cioè ogni mattina dovevano presentarsi in caserma e firmare la presenza in città. Non potevano andare via da Catania». 

 

A quale progetto fotografico stai lavorando? 

«Sono in fase di esplorazione e di studio. Ultimamente, mi sto concentrando sulle isole italiane vulcaniche. Penso siano molto simili tra loro, compresi i loro isolani».   

Print Friendly, PDF & Email