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Attualità

L’Italia, uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea, potrebbe decretarne la fine

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Le relazioni tra il governo italiano e Bruxelles sono le peggiori di sempre. Senza un cambio di rotta si rischia il ritorno alla lira con conseguenze catastrofiche.

di Vito Nicola Lacerenza

Fino ai primi anni 2000,  l’idea di un’interconnessione sempre più forte tra gli Stati europei era vista con entusiasmo in tutto il vecchio continente e nel mondo. L’Unione Europea, in cui i cittadini si spostano liberamente da una nazione all’altra utilizzando un’unica moneta, è stata definita dall’ex presidente americano Barack Obama “il più grande progetto politico della storia”. Un giudizio contro cui oggi si scagliano i partiti euroscettici che moltissimo consenso hanno riscosso nelle ultime elezioni nazionali europee, arrivando in alcuni casi al governo. L’Italia, Paese fondatore dell’UE e terza economia d’Europa, rappresenta l’esempio più eclatante. Il governo Lega-5stelle è il primo establishment populista della storia dell’UE, con cui ha incrinato le relazioni in un modo mai visto in precedenza. Basti pensare che in un’intervista all’emittente inglese BBC il leader della Lega, Matteo Salvini, è arrivato a menzionare l’ipotesi che “l’Italia si ritrovi fuori dall’Euro” e che a quel punto “sarebbe meglio trovarsi pronti”. L’idea però, secondo gli ultimi sondaggi, non piace al 60% degli italiani che, seppur scontenti della politica d’austerità iniziata dal governo Monti nel 2011, temono che l’uscita dall’UE, con il successivo ritorno alla lira, possa condurre l’Italia verso la catastrofe economica. Per gli economisti si tratta di una preoccupazione ben fondata. Se l’Italia abbandonasse l’UE, sarebbe tenuta a pagare in tempi brevi 400 miliardi di euro di debito accumulato alle banche europee. Nello stesso tempo la BCE (Banca Centrale Europea) smetterebbe di acquistare i titoli di Stato italiani e il debito pubblico nazionale, che attualmente ammonta a 2.400 miliardi di euro, crescerebbe in maniera incontrollata. Per contrastare tale aumento la Banca d’Italia comincerebbe a stampare quanta più moneta possibile   facendo schizzare l’inflazione a livelli record. A quel punto il potere d’acquisto degli italiani sarebbe polverizzato dalla svalutazione e le banconote varrebbero quanto la carta straccia.

A causa della ipotetica bancarotta dello Stato, dipendenti pubblici e pensionati rimarrebbero senza reddito, o quasi, mentre i lavoratori del settore privato perderebbero il lavoro. La crisi economica farebbe fallire le piccole aziende e fuggire all’estero le grandi. Il crollo economico dell’Italia porterebbe quasi sicuramente alla disgregazione dell’Unione Europea con conseguenze imprevedibili a livello internazionale. Nessun italiano desidera vedere il proprio Paese al collasso eppure, alle ultime elezioni nazionali, l’elettorato ha mostrato di apprezzare i programmi elettorali di Lega e 5stelle e la loro linea dura con Bruxelles. Ma alla base del trionfo politico dei populisti non c’è un sentimento anti-europeista, bensì la sfiducia del popolo nei confronti delle forze politiche tradizionali: il centrodestra e il centrosinistra, che hanno dominato il panorama politico italiano negli ultimi 20 anni.  Su Forza Italia e Partito Democratico si sono inevitabilmente riversate le ‘colpe’ dell’ultima recessione; dell’aumento della pressione fiscale, della disoccupazione e dei poveri. Sebbene siano innegabili le responsabilità oggettive della vecchia classe dirigente rispetto a tali problemi, gli esperti sono unanimi nell’affermare che la  crisi italiana è direttamente collegata a quella globale cominciata nel 2008, dopo il crollo del colosso bancario americano Lehman Brothers.

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