Arte & Cultura
L’associazione calabrese Brutium ed Enza Bruno Bossio ricordano “Ferramonti, il campo sospeso”

Il documentario di Cristian Calabretta presentato alla Camera: per non dimenticare le storie di circa 3000 individui tra ebrei e altre etnie sgradite al regime nazista. Deportati nel campo di internamento nei pressi di Tarsia (Cs), sopravvissero grazie all’aiuto dei calabresi
Roma, 4 aprile – “Con il documentario ‘Ferramonti, il campo sospeso’ di Cristian Calabretta, già presentato il 27 gennaio in Calabria per celebrare la Giornata della Memoria, i calabresi sono venuti a conoscenza della triste realtà del campo di internamento che a cavallo della seconda guerra mondiale ha visto prigioniere circa 3000 persone tra ebrei ed altre etnie perseguitate dal regime nazista”, lo ha detto Enza Bruno Bossio, deputato alla Camera eletta a Cosenza nel Pd, in apertura dell’evento del 31 marzo scorso alla Camera dei Deputati, durante il quale, su iniziativa di Associazione Brutium presieduta da Gemma Gesualdi, è stato proiettato il documentario di Calabretta alla presenza di giovani studenti di istituti di Paola oltrea soci e simpatizzanti di Brutium. Un campo anomalo quello di Ferramonti di Tarsia (Cs) dove nonostante i disagi ed il dolore derivanti dalla detenzione coatta, negli anni tra il 1940 ed il 1943 sopravvissero gran parte dei prigionieri, ad eccezione di undici morti a causa di un attacco aereo e di coloro che morirono per tifo, malaria o malnutrizione. “Si è trattato del principale campo di concentramento del sud Italia in termini numerici,” ha spiegato Gemma Gesualdi presidente di Brutium, “ ma anche di quello dove la popolazione circostante ha espresso azioni di vera solidarietà umana nei riguardi di coloro che erano costretti alla reclusione. A dimostrazione che il popolo cosentino ha mantenuto vivi nel cuore i principi di tolleranza e rispetto della dignità altrui tanto cari al filosofo e conterraneo Bernardino Telesio”. Il documentario, realizzato da Cristian Calabretta con fondi propri, circa 60mila euro, ha riscosso il vivo interesse di Leone Paserman, presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma, presente all’evento tra i relatori. Paserman prima della proiezione ha sintetizzato la storia del campo Ferramonti spiegando ai presenti che oltre agli ebrei provenienti da Roma, Fiume, Grecia e Belgrado, figuravano tra i detenuti anche non ebrei ma oppositori del regime fascista provenienti dalla Jugoslavia, Grecia e finanche Cina. La zona nei pressi di Tarsia in provincia di Cosenza dove fu collocato il campo era insalubre e paludosa. Alle persone deportate era data solo una baracca in cui dormire ma non erano forniti di cibo e non potevano lavorare. Situazione che avrebbe portato a morte sicura se non fosse intervenuta la popolazione circostante, che aiutò questa gente per tutto il tempo della prigionia. Il campo era costituito da 92 capannoni situati in un perimetro di circa 160.000 m² nei pressi del fiume Crati. Vi erano capannoni di 335 m², con due camerate da 30 posti, e capannoni da 268 m², che accoglievano otto nuclei familiari di cinque persone o dodici nuclei familiari da tre persone. Nessuno degli internati fu vittima di violenze o deportato da Ferramonti in Germania, perché le stesse autorità del campo non diedero mai seguito alle richieste tedesche. Lo storico ebreo inglese Jonathan Steinberg ha definito il campo di Ferramonti come “il più grande kibbutz del continente europeo”. La vicenda del campo raccontata da Calabretta ha una forte valenza come memoria storica, ma si propone anche di mantenere vivo il ricordo della solidarietà e dell’umanità con cui il popolo calabrese affrontò l’emergenza umanitaria. “Ferramonti – ha detto Cristian Calabretta – non è stato un campo di sterminio, ma un campo di concentramento di cui gli storici non si sono mai occupati. Ma è esistito, ed è giusto che la gente sappia”.