Arte & Cultura
Intervista a Fabrizio Catalano grande erede di Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia come nonno, la Sicilia come culla, il mondo come casa, intervista a Fabrizio Catalano, scrittore regista, traduttore, drammaturgo, sceneggiatore, ma soprattutto fine pensatore, sensibile e sorprendente, ironico e malinconico e generosamente metafisico.
di Isabel Russinova
Quanto incide nelle sue scelte artistiche il pensiero?
Direi che cerco di equilibrare, se non addirittura di mischiare, pensiero e istinto. D’altra parte, quando un essere umano impara a conoscersi, non è escluso che spesso l’istinto lo guidi verso ciò che il pensiero sceglierebbe. Non avrei mai la presunzione di proiettare un mio pensiero sul mondo intero; tuttavia ritengo che alcune cose, in cui credo e che mi sembrano rimosse dalla mancanza di consapevolezza in cui si sta immergendo l’umanità, vadano dette, raccontate, trasfigurate. E che tutto questo si possa fare in maniera poetica, visionaria, non perdendo l’attenzione per la forma e l’originalità.
La Bolivia, un paese magico e misterioso, che ultimamente sta frequentando con regolarità e dove ha girato il suo ultimo lavoro cinematografico Irregular, e anche la sua nuova pellicola, ancora in lavorazione, ce ne vuol parlare?
Gli ultimi anni mi hanno portato a scoprire, in Bolivia, la magia di un paesaggio meraviglioso e di affascinanti tradizioni ancestrali, la forza di un’umanità al contempo tranquilla e ribelle e la speranza in una società retta da altre regole. Da queste impressioni, da queste aspirazioni, è nato Irregular, una pamphlet audiovisivo che alterna scene immaginifiche e interviste, citazioni letterarie e reminiscenze cinematografiche, coreografie ed effetti digitali, girato in Bolivia, spesso in location mai raggiunte prima dalla macchina da presa. Il film s’ispira un classico del muto – La stregoneria attraverso i secoli di Benjamin Christensen, prima docufiction della storia – e, raccontando la diversità del mondo femminile boliviano, giunge a teorizzare che il ritorno al matriarcato – cioè l’abbandono dell’istinto di sopraffazione che oggi troppi considerano inalienabile dall’essere umano – sarebbe la soluzione ai mali e alle ingiustizie del nostro pianeta. Questo progetto è stato ideato e portato a termine da Fátima Lazarte e da me ed è stato un atto di coraggio e una piccola, quasi soave sfida al sistema. Così come il cortometraggio Astral Medusas, girato nella Patagonia argentina, che trasfonde miti antichissimi, e la lezione di altri maestri del muto come Dimitri Kirsanoff e Jean Epstein, in atmosfere e ritmi più che contemporanei, grazie, peraltro, ancora una volta, alle splendide musiche del maestro Fabio Lombardi.
La collaborazione con Fátima Lazarte ha sicuramente uno spazio importante nel suo percorso professionale, è così?
Il rapporto professionale con Fátima ha arricchito e stimolato entrambi, negli ultimi anni, producendo queste due opere coraggiose e, per l’appunto, assai irregolari. Il film ha avuto riscontri più che lusinghieri in diversi festival in giro per il mondo: segno che c’è tanta gente insoddisfatta del modello sociale ed economico che i paesi anglogermanici tentano di imporre.
La presenza carismatica, incisiva e speciale di suo nonno Leonardo Sciascia nella sua infanzia ha influenzato le sue scelte?
L’essere cresciuto nella casa dei miei nonni ha avuto indubbiamente un’influenza decisiva sulla formazione delle mie idee e dei miei gusti. Dall’amore per la libertà e la giustizia alla passione per l’art nouveau. Assorbire, spesso silenziosamente, la lezione di vita di un uomo come Leonardo Sciascia è stato un grande privilegio, che mi ha condotto a percorrere un mio stretto e scosceso sentiero, facendo tesoro della sua eredità etica e alimentando a volte passioni e pulsioni diverse dalle sue.
Tra i tanti lavori teatrali che ha diretto ce n’è qualcuno che ama in particolare?
Uno dei padri del cinema di genere italiano, Antonio Margheriti, che ha realizzato diverse decine di film, rispondeva a questa domanda che una madre non può avere dei figli meno cari. Certo, ognuno di noi non ha tratto la medesima soddisfazione da tutti i lavori a cui ha preso parte; ma tutti i lavori sono stati comunque parte di una crescita, di un apprendimento, di un processo di maturazione. La messa in scena de Il giorno della civetta, alcuni anni or sono, ha riscosso un enorme successo. Ma tantissime soddisfazioni sto ricavando dagli ultimi due spettacoli, Todo modo e La scomparsa di Majorana, che saranno in tournée anche nella prossima stagione. Una delle cose che più mi piace è creare ambienti di lavoro amichevoli, che bandiscono la competitività e dove tutti credono in ciò che stanno realizzando.
Quale invece quello che non è riuscito ancora a portare in scena ?
Recentemente è stata pubblicata, per i tipi della Linea Edizioni, la mia traduzione dal francese del poema di Charles Van Lerberghe La canzone di Eva, dove l’autore ha immaginato un’inedita prima donna, che esplora senza Adamo un Eden che è anche crepuscolo degli dei, e si ribella coscientemente a un’entità suprema, che la vorrebbe bella ma ignorante, accettando la dimensione mortale pur di scoprire la verità. Ecco: durante una delle tante quarantene degli anni scorsi, ho scritto, direttamente in francese, una sceneggiatura tratta da questo libro che gioiosamente mi ossessiona da alcuni lustri; l’ho fatto sapendo che si tratta di un progetto pressoché irrealizzabile. Però, insomma, dopo un film tratto da La chanson d’Ève potrei pure smettere di lavorare...
Cosa pensa del teatro e del cinema in questo momento?
A rischio di sembrare antipatico, e non rinunciando al piacere della battuta, direi: tutto il male possibile. Battute a parte, molto intorno a noi è omologato, servile, ripetitivo, stantio. Tanto per rimanere nell’ambito della letteratura francofona, stiamo assistendo al concretizzarsi dei famosi versi di Verlaine: Je suis l’Empire à la fin de la décadence…
C’è spazio per il cinema e il teatro indipendente?
Anche in uno sgabuzzino, anche nelle grotte dove forse ci proietterà un futuro postatomico, chi vorrà potrà sempre essere indipendente, seppur pagando a prezzo di immani sacrifici. Il problema è che l’attuale capitalismo finanziarizzato e ipertrofico tende a escludere qualsiasi manifestazione o espressione non uniformata; e dunque sostenere praticamente ed economicamente le proprie idee risulta sovente assai arduo.
Le chiedo quanto e se, secondo lei, la cultura può e potrà incidere sul nostro futuro.
Oggi la parola cultura rimbomba spesso nel vuoto della retorica. Quello di cultura appare come un concetto evanescente, astratto, per qualcuno perfino inutile. Invece la cultura è quell’insieme di sensibilità, consapevolezza, memoria ed etica che rende gli uomini differenti dagli altri animali.
Il tempo stringe: con una sconsideratezza che sconfina nella baldanza, con una supponenza che è già idiozia, il mondo nordatlantico si sta avviando alla disintegrazione. Forse è giusto così. Forse, chiudendo il cerchio di questa intervista, è giusto che questo sistema patriarcale, che non solo ha stabilito che esistono delle superiorità ma che un popolo afferma la sua presunta superiorità su un altro attraverso la tecnologia, e specialmente la tecnologia militare, scompaia tragicamente. Ho l’impressione che le possibilità di evitare questo scenario siano ormai piuttosto risicate. L’unica retromarcia possibile passa dalla sensibilità, dall’etica, dalla memoria, dalla consapevolezza. Cioè dalla cultura.