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I Korowai, l’ultima tribù sulla Terra dedita al cannibalismo rituale

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I Korowai, tribù patriarcale di circa 3.000 individui censiti solo nel 2010, è rimasta fino al 1974 completamente isolata, senza alcun contatto con il mondo civilizzato

di Luca Rinaldi

Alberi. Cime di alberi a perdita d’occhio. È questo il panorama mozzafiato che si può osservare dalle abitazioni di alcuni degli ultimi cannibali rimasti sul pianeta: la tribù dei Korowai.

Capanne completamente fatte di legno, foglie di palma e banano, sospese sugli alberi fino a 50 metri di altezza, capolavori di architettura a traliccio costruiti nel pieno rispetto della natura che li ingloba e che possono ospitare fino a 10-15 componenti di una stessa famiglia. Un sistema per proteggersi da spiriti maligni, da clan avversari, da sciami di insetti mortali e dalle frequenti e disastrose inondazioni che colpiscono quest’angolo sperduto del mondo, un’area acquitrinosa di 600 kmq nascosta nel cuore della foresta pluviale della Papua Nuova Guinea, in Oceania.

È qui che vivono i Korowai, tribù patriarcale di circa 3.000 individui censiti solo nel 2010 che, essendo rimasta fino al 1974 completamente isolata, non aveva mai avuto alcun contatto con il mondo civilizzato. Fu grazie ad un’esplorazione guidata da un missionario olandese, primo ad avventurarsi in queste remote regioni, che avvenne, in quell’anno, il primo contatto documentato con la tribù. Alla prima, nei decenni successivi seguirono altre spedizioni, accompagnate da troupe televisive e documentaristi che portarono alla luce la vita quotidiana dei Korowai, che comprende tra le altre cose anche la pratica, per noi tabù, del cannibalismo.

Non parliamo in questo caso di cannibalismo forzato dalle necessità dovute a carestie o fame estrema, né di cannibalismo derivato da disturbi mentali come quelli che si scorgono nei casi ormai noti di alcuni serial killer antropofagi. Quello praticato dai Korowai è cannibalismo a scopo rituale, derivato da due fattori culturali: le loro credenze animiste e una sostanziale ignoranza per ciò che riguarda le malattie.

Non facendo uso di medicinali, ma curandosi solo con erbe, i Korowai non concepiscono l’esistenza di microbi e batteri, andando perciò incontro ad un alto tasso di mortalità, tanto che generalmente nessun componente della tribù raggiunge i 50 anni di età, stroncati da malaria, tubercolosi, elefantiasi e anemia.

La spiegazione di queste morti “misteriose” è da attribuire, secondo loro, a quello che chiamano khakhua, un demone maligno che assume forma umana (mai di donna) e che attacca, divorandolo dall’interno, il corpo del malato, commettendo così un gravissimo crimine. Solo in punto di morte, il malato, convinto di essere sotto l’attacco del khakhua, rivela sussurrando il nome del presunto demone, spesso indicando membri di altri clan, amici o parenti, accusati di essere stregoni. Il colpevole a questo punto viene catturato, ucciso e smembrato, per essere infine mangiato interamente (tranne capelli, unghie e organi genitali).

L’atto di divorare letteralmente il demone, così come questo si è cibato magicamente del defunto, diventa quindi una sorta di espiazione/punizione del peccato commesso dal khakhua, ponendo di conseguenza la vendetta alla base del sistema giudiziario della tribù. I familiari del defunto conservano infine il teschio e le ossa del presunto stregone e le percuotono per tutta la notte contro i tronchi degli alberi così da allontanare definitivamente dalla famiglia altri possibili khakhua.

Gli antropologi sono convinti che, con l’esposizione al mondo esterno e al turismo, la pratica del cannibalismo tra i Korowai si sia nel tempo estinta e che oggi la tribù continui solo le altre attività tipiche, quali la raccolta, la caccia, la pesca e la coltivazione itinerante, cibandosi sostanzialmente dei frutti che la foresta concede (pesce, cinghiali, caprioli, serpenti, iguane, pipistrelli, maialini, verdura, frutta tipica e sago, una sorta di pane ricavato dagli alberi).

Eppure c’è ancora oggi chi, tra i locali, sostiene che nei clan Korowai delle regioni più interne della foresta pluviale, l’antropofagia sia ancora diffusa, così come del resto lo sono le altre tradizioni millenarie di questo popolo.

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