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I grandi processi della Storia: Socrate, il martire del libero pensiero

Socrate viene accusato, tra le altre cose, di “ateismo”, che rientra nell’accusa di empietà, ma essendo ritenute, religione e cittadinanza, un tutt’uno, l’accusa implicita diventa quella di aver cospirato contro le istituzioni e l’ordine pubblico. Ma perché voler processare un settantenne, al contrario delle accuse, un uomo virtuoso e morigerato, un cittadino modello, timorato degli dei e instancabile nel predicare ai giovani ateniesi virtù e obbedienza nei confronti dei genitori e delle leggi dello Stato?
Il processo che portò alla condanna a morte di Socrate, fa sorgere una domanda: perché voler processare un settantenne, descritto da Senofonte e Platone come di bassa statura e piuttosto brutto, ma buono nell’animo, un uomo virtuoso e morigerato, un cittadino modello, timorato degli dei e instancabile nel predicare ai giovani ateniesi virtù e obbedienza nei confronti dei genitori e delle leggi dello Stato?
Le motivazioni sono da ricercare senza dubbio nel contesto storico-politico in cui è vissuto il noto filosofo greco. Siamo ad Atene nel 399 a.C. e la democrazia ateniese si è appena ricostituita dopo la sconfitta subita nella guerra del Peloponneso contro Sparta e l’avvento nel 404 a.C. del cosiddetto governo dei Trenta Tiranni, un regime oligarchico di matrice spartana capeggiato da Crizia e dalle generazioni più giovani e aristocratiche. Queste seguono con entusiasmo le teorie sofiste, confuse spesso con quelle socratiche, perché critiche nei confronti di ogni principio e verità costituiti dalla religione o dalla tradizione. Di conseguenza, il rinnovato governo democratico volge, per contrasto, il suo sguardo malinconico all’età d’oro di Pericle com’era prima della guerra, tendendo a chiudersi alle novità, di qualunque genere esse siano, e aggrappandosi all’antica religione come caposaldo di coesione sociale. Volendo instaurare un nuovo clima di pacificazione generale, il nuovo regime ha anche eccezionalmente concesso un’amnistia ai nemici del partito, ex seguaci dei Trenta, con il risultato però di mantenere eventuali e future serpi in seno da cui doversi sempre guardare.
Socrate, dal canto suo, pur non essendosi mai schierato apertamente con la fazione aristocratica filo-oligarchica del governo dei Trenta Tiranni, è comunque in ottimi rapporti con alcuni dei suoi esponenti, Crizia in primis, e contestualmente critica duramente alcune procedure democratiche riguardanti l’accesso alle cariche pubbliche che avvengono per sorteggio o per elezione popolare, sostenendo invece la necessità di mettere a capo della città solo persone qualificate e preparate in una materia tanto delicata come la politica. Una visione indipendente, la sua, considerata però spregiudicata e dunque pericolosa per lo status quo politico, anche perché il filosofo si sta facendo un suo seguito di giovani, affascinati dalle teorie filosofiche che va predicando.
Nasce dunque dal timore che la città possa cadere nuovamente vittima di pericolose derivazioni anticonformiste, la volontà di creare un capro espiatorio, così da farne un esempio per chiunque maturi pensieri rivoluzionari. Da qui derivano le accuse mosse a Socrate, perfetto per il ruolo, in quanto considerato un contestatore dei tradizionali valori cittadini.
Eppure, per processare qualcuno ad Atene, va seguita una procedura ben precisa. Innanzitutto, non esiste un pubblico ministero, ma ogni cittadino ha il potere di divenire accusatore inoltrando un’istanza privata. Nel caso di Socrate, a volerlo accusare è Anito, ex esiliato dai Trenta, commerciante e uomo benestante, ora stimato tra i democratici conservatori che rovesciarono la tirannia. La scusa è delle più banali e pretestuose: Anito era preoccupato che suo figlio apprendesse una concezione malsana della vita da un filosofo come Socrate, da lui considerato solo un “sofista” che attacca impunemente e direttamente i politici, nonché un mendicante chiacchierone e bizzarro che rinnega gli dei e attrae i giovani con fascinazioni anticonformiste. Insieme ad Anito si schiera Licone, altro esponente democratico, e i due, avvalendosi di un prestanome, Meleto, accusano il filosofo di corrompere i giovani insegnando loro dottrine antisociali, di non credere negli dei della città e di tentare di introdurne di nuovi.
Socrate viene quindi accusato, tra le altre cose, di “ateismo”, che rientra nell’accusa di empietà, ma essendo ritenute, religione e cittadinanza, un tutt’uno, l’accusa implicita diventa quella di aver cospirato contro le istituzioni e l’ordine pubblico.
Le procedure ateniesi dell’epoca in fatto di processi sono molto garantiste, lasciando sempre una possibilità all’incriminato di sottrarsi alle accuse, preferendo l’esilio a esse. Socrate però non cede e, a questo punto, la legge di una città come Atene, che vanta le migliori scuole di retorica del mondo antico, prevede che, sia l’accusatore che l’accusato possano decidere se avvalersi di un logografo, ossia un oratore professionista a pagamento, o optare per difendere le proprie posizioni da sé. Socrate sceglie l’autodifesa, rifiutando l’offerta di Lisia, esperto oratore del tempo, propostosi come suo logografo.
Inizia così il processo davanti all’Areopago, il consiglio di 501 cittadini di Atene adunatisi per giudicare il filosofo. A garanzia dell’indipendenza dei giudici, le decisioni dell’Aeropago sono prese sempre a scrutinio segreto (e non per alzata di mano, com’è di prassi nelle altre assemblee ateniesi). Il numero di giudici, che può andare da 501 individui fino a 1501, serve a evitare la corruzione e l’intimidazione dei giudici stessi: distribuendo il potere decisionale lo si può meglio controllare, garantendo l’imparzialità.
Analizzando le accuse specifiche a Socrate, ci si rende conto di come esse siano puramente pretestuose. È Socrate stesso a demolirle una alla volta, grazie alla sua logica stringente. La prima accusa, quella di empietà fa riferimento, tra le altre cose, anche agli studi naturalistici fuori dalla norma che si riteneva compisse Socrate. A riprova della considerazione che avevano di Socrate alcuni democratici dell’epoca, Aristofane, nella commedia Le nuvole, mostra il filosofo in una cesta che galleggia a mezz’aria, concentrato in ragionamenti assurdi e bizzarri. Socrate, ben consapevole che le accuse a lui mosse non sono altro che un paravento legale con il quale potersi sbarazzare di lui, si difende da tale accusa dimostrando come il fatto non sussista e chiamando gli stessi suoi giudici a testimoniare di non averlo mai visto impegnato negli studi che gli vengono contestati.Tale accusa comprende poi la corruzione dei giovani. Essa va spiegata con il fatto che Socrate era stato maestro di Crizia e Alcibiade, due figure centrali al tempo del governo dei Trenta Tiranni, in quanto Crizia ne era il capo e Alcibiade, per sfuggire a un processo nei suoi confronti, si era macchiato di tradimento nei confronti di Atene, passando dalla parte di Sparta e combattendo contro i suoi compatrioti. Per Socrate, l’accusa di corruzione dei giovani è assurda quanto quella precedente e lo dimostra con la sua invincibile dialettica: è impossibile che tutti gli ateniesi siano buoni educatori, mentre lui solo sia un cattivo esempio educativo. Inoltre, fa ammettere a Meleto, suo accusatore, che le persone accettino di stare solo con chi apporta loro dei beni, rifuggendo da chi apporta loro dei mali. In tal caso, quindi, o Socrate non può insegnare il male (perché in tal caso nessuno starebbe con lui) oppure lo insegnerebbe inconsapevolmente (perché se lo facesse consapevolmente saprebbe già che nessuno starebbe con lui). Questa deduzione logica è fondamentale perché, per la legge ateniese, chi sbaglia senza saperlo non è punibile, ma va anzi istruito. L’ultima accusa indica Socrate come colpevole non solo di non credere negli dei della città, ma di averne introdotti di nuovi. Qui i suoi detrattori si riferiscono al daimon socratico: per il filosofo, una sorta di divinità minore agli dei ma superiore agli uomini, una voce interiore che lo dissuade dal compiere certe azioni, mantenendolo sulla retta via. Una specie di coscienza morale dell’uomo, come l’interpreterà Kant successivamente. Ebbene, Socrate dimostra ai giudici come il suo daimon non sconfessi le divinità tradizionali, reputando esso inferiore, ma anzi accetti la loro esistenza proprio in virtù della loro superiorità al daimon. Inoltre, fa notare come sia impossibile non credere agli dei, ma allo stesso tempo professarne di nuovi, una contraddizione, questa, insita nell’accusa di Meleto.
Socrate, dunque, decide di non difendersi nel modo tradizionale, portando testimoni a favore che possano parlare di lui in termini positivi o famigliari che impietosiscano i giudici, com’era prassi, ma lo fa rilanciando la palla all’avversario, facendolo cadere in contraddizione e demolendo il castello di false “prove” costruito contro di lui, fino a lasciare l’interlocutore senza parole. Allo stesso tempo si sente in dovere di esaltare il proprio compito educativo nei confronti degli ateniesi, al quale si sente chiamato per ordine divino. Se non esercitasse più la sua filosofia, sarebbe come lasciare la città che ama in balia di sé stessa. Si propone quindi come uomo determinato a compiere sempre e comunque il giusto, spinto solo dalla verità e dal rispetto delle leggi, anche quando ciò va a suo svantaggio. Supplicare la grazia sarebbe, ad esempio, per lui inaccettabile, perché significherebbe far infrangere ai suoi giudici il giuramento di giudicare secondo legge.
Arriva il momento di votare e il responso è di colpevolezza, ma con una maggioranza di soli 30 voti, che su una giuria di 501 persone sono poca cosa. A questo punto la legge ateniese prevede che, sia l’accusatore che l’accusato ritenuto colpevole, facciano ciascuno una proposta di pena adeguata al verdetto. In alternativa, il colpevole può decidere di auto-esiliarsi dalla città.
Meleto senza indugi propone la pena di morte, una punizione fin troppo esagerata considerato lo scarto di voti esiguo, ma fortemente sollecitata dai conservatori che lo sostengono. Socrate, invece, rifiutando l’esilio, compie in seguito una mossa inaspettata e completamente fuori luogo in un processo in cui si deve decidere della sua vita: sfida apertamente e in modo sprezzante il sistema e i giudici dichiarandosi, per il fatto di aver insegnato ai giovani la scienza del bene e del male, addirittura meritevole di essere nutrito a vita e a spese pubbliche nel Pritanèo, un premio ottenuto solo da eroi meritevoli, orfani di guerra e vincitori di gare olimpiche. A completare lo sberleffo nei confronti della giuria, propone in alternativa, una pena consistente nel pagamento di un’ammenda irrisoria, una mina d’argento, cioè tutto ciò che possiede.
Se il risultato della prima votazione (quella sulla colpevolezza o meno) lasciava intendere che i giurati si sarebbero accontentati di condannare Socrate a una pena leggera ma ragionevole, che poteva essere una multa o al massimo l’esilio, con l’atteggiamento tenuto da Socrate le cose cambiano. Nella seconda votazione (quella per decidere la pena)i giudici si trovano a dover scegliere se accettare l’ammenda ridicola proposta in modo sprezzante e irrispettoso dal filosofo (poi alzata a 30 mine d’argento grazie ad alcuni amici che si propongono come suoi garanti, cifra comunque irrisoria) o condannarlo a morte come richiesto da Meleto. L’irritazione generata nei giudici dal sarcasmo di Socrate porta la maggioranza di contrari ad aumentare e lo scarto sale a 80 voti a suo sfavore. Strano anzi che, dopo tale affronto, rimanga ancora qualcuno che parteggi per lui.
E si giunge così al momento della condanna e della punizione. Nell’Atene del tempo sono due i metodi di esecuzione capitale più praticati: la precipitazione in un baratro e una sorta di crocifissione che conduce alla morte attraverso una lunga agonia. Ai più fortunati, oltre che ai più ricchi, è riservata una terza opzione: si somministra del veleno, sicuramente preferibile alle altre due prassi. La cicuta, il veleno utilizzato, è considerato un privilegio di pochi in quanto estremamente rara nella regione e dunque dal costo elevato, considerato anche che è a carico del condannato. Socrate, pur essendo vissuto in estrema povertà, paga per la cicuta, forse aiutato dagli stessi amici che gli hanno fatto da garanti in precedenza.
Ed è proprio da tali amici che arriva anche l’ultima chance per Socrate di sopravvivere. È prassi diffusa dell’epoca che i condannati, per salvarsi dalla pena capitale, trovino stratagemmi per fuggire, senza venire troppo ostacolati da chi dovrebbe vigilare, riparando fuori città auto-esiliandosi. Gli amici di Socrate hanno già provveduto a corrompere i carcerieri del filosofo e a organizzare la fuga. Questa soluzione accontenterebbe un po’ tutti, giudici compresi, i quali sin dall’inizio, come detto, erano poco propensi ad arrivare a una sentenza di morte, preferendo un suo allontanamento, senza morti sulla coscienza.
L’unico che rifiuta l’offerta, ancora una volta, è proprio Socrate, che sceglie consapevolmente e testardamente la morte piuttosto che la fuga e l’esilio. Parrebbe un comportamento insensato, oltre che suicida, ma in realtà non lo è se si considera come ha vissuto tutta la sua vita il filosofo.
Per lui, che è vissuto sempre nel rispetto delle leggi e nella convinzione che anche se una legge la si ritiene sbagliata o ingiusta è comunque giusto sottoporvisi, non sarebbe corretto né tantomeno onorevole violarla, sottraendovisi con un sotterfugio. Il suo stesso pensiero filosofico porta a considerare l’uomo come tale, solo nel suo rapporto con una società retta da leggi. Senza leggi non ci sarebbe la vita in società e dunque non ci si potrebbe considerare uomini.
Inoltre, l’esilio, per Socrate, significherebbe solo continuare a predicare le sue teorie e mettere in discussione le false verità in un altro luogo, dato che non può farne a meno perché guidato dal suo daimon. Ciò significherebbe ricadere nello stesso astio e nelle stesse accuse che lo hanno condotto già una volta a essere processato e con il risultato di venire cacciato ovunque egli si rechi. Socrate considera quindi l’esilio come un male certo per lui, mentre non altrettanto certo è il male che troverà nella morte, della quale, secondo il suo stesso pensiero, egli sa di non sapere nulla.
Socrate accetta dunque la condanna senza paura né rimpianti, perché ciò che si mette in discussione, con un pretesto politico-religioso, non sono le false accuse di cui viene tacciato, ma implicitamente gli viene chiesto di contraddire un’intera vita che lui ha sempre vissuto con coerenza e nel rispetto dei propri valori. Rifiuta quindi di compromettere la propria integrità morale in nome di una salvezza che lo porterebbe alla corruzione della sua dignità.
La vera domanda da porsi, dunque, è: Socrate voleva immolarsi per una sorta di salvezza morale, diventando di fatto e consapevolmente un martire del libero pensiero? La strategia che adotta durante il processo a suo carico e il comportamento nelle scelte successive porterebbero a optare per una risposta affermativa. Socrate riesce letteralmente a vedere il futuro in maniera chiara e lucida, nonostante i suoi settant’anni. Viene condannato dal tribunale della sua amata Atene, città che, solo sulla carta, si propone come faro di civiltà e di democrazia, ma che in realtà, come Socrate stesso mette in luce, non può e non vuole liberarsi dei propri pregiudizi e della propria chiusura mentale. Il filosofo non può invece che uscire vincitore dal processo con la Storia, che lo assolve a maggioranza piena per la sua coerenza nel lottare fino in fondo a difesa del libero pensiero e del diritto (oltre che del dovere) di vivere, agire e morire secondo coscienza.
A ulteriore dimostrazione di ciò, Socrate trascorre la sua ultima giornata su questa terra così come aveva sempre vissuto: dialogando di filosofia con amici e discepoli, trattando il tema dell’immortalità dell’anima e del destino dell’uomo nell’aldilà.
Li lascia, in seguito, nel modo più enigmatico possibile, mentre già le membra iniziano a paralizzarsi e a diventare insensibili per effetto della cicuta, pronunciando le sue ultime parole rivolgendosi all’amico Critone: “O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene”.
Varie sono le interpretazioni di queste parole, prima fra tutte e più semplicistica il non voler lasciare debiti irrisolti né con gli uomini né con gli dei, chiedendo di sacrificare un gallo al dio Asclepio come ringraziamento per avergli reso la morte indolore. Altri interpretano le parole di Socrate come ringraziamento per essersi liberato, con la morte, dei suoi nemici e persecutori, così da non doversi piegare al compromesso, abiurando in vita le proprie convinzioni. Alcuni, invece, le spiegano col fatto che, nella mitologia, il gallo, animale sacro ad Asclepio, aveva il potere di allontanare gli influssi maligni anche dopo la morte. Eppure, l’interpretazione più paradossale, se si considera la vita di Socrate, passata a dire sempre ciò che pensava e a riflettere prima di dirlo, potrebbe essere quella sostenuta da diversi autori e che ben si presterebbe inconsapevolmente all’ironia del filosofo: le ultime parole di Socrate, a causa del veleno che gli scorreva in corpo, sarebbero solo il delirio insensato di un moribondo.