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Arte & Cultura

Francesco Filippelli e le tele che sfidano il tempo invecchiando

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Francesco Filippelli tele e tempo
Tempo di lettura: 8 minuti

Pittura e chimica, due materie apparentemente lontane che il pittore e chimico Francesco Filippelli usa per delle tele che sfidano il tempo. A lui, infatti, si deve la tecnica “Temporama alchemico” che strappa dalle grinfie di ore, minuti e secondi i soggetti pittorici, facendoli invecchiare e ringiovanire.

Un dottor Frankenstein del 2024 con la stessa voglia di sperimentare, un Houdini con l’abilità di fuggire dall’ordinario e, infine, un Basil Hallward che con maestria dà i natali a un certo Dorian Gray: sono le personalità che più di tutte forse collimano nello spirito di Francesco Filippelli. Classe 1993, chimico e pittore napoletano che tra provette e pigmenti ha ideato e poi brevettato nel 2021 la tecnica “Temporama alchemico”.

Maniera usata per raffigurare soggetti sacri storici e del nostro tempo che, una volta impressi nella tela, invecchiano e ringiovaniscono. Nulla di astruso o tecnologico, solo tanto studio e genialità di un alchimista introverso e amante della solitudine che ha il potere di accelerare le due fasi del ciclo biologico in un tempo di circa 7 minuti. E per gli osservatori pietrificati dalle opere in divenire come da Medusa, l’unica “salvezza” è abbandonarsi e lasciarsi trasformare emotivamente da volti e nature morte in un tempo dispiegato, che sfugge al controllo.  

Ma il “Si può fare!” a cui è giunto Francesco è solo una parte delle sperimentazioni iniziate dopo la vista di un quadro singolare nella Cappella di Sansevero, che lo condurrà alla creazione di lavori elogiati da riviste d’arte contemporanea (i.e. L’Elite, Effetto Arte), cataloghi come “Italiani” e “Maestri” (a cura di Vittorio Sgarbi) e a diverse esposizioni. Tra queste “Frammenti di Temporama Alchemico” con 6 opere in divenire sulla concezione statica di tempo e spazio allo Spazio 57 e la recente mostra “Imago Dei” al Maschio Angioino con 7 dipinti, sempre mutevoli, su come si sviluppa nella nostra spiritualità il volto di Dio.  

Messi da parte pigmenti e reagenti, in questa chiacchierata Francesco ha svelato parti di sé, della sua arte e di una reazione chimica che sfugge a qualunque spiegazione: le emozioni. 

Ph. Riccardo Piccirillo, Francesco Filippelli – autoritratto

Sei un pittore laureato in chimica. Quando inizia il tuo rapporto con l’arte e perché hai scelto poi l’ambito scientifico? 

«Il mio rapporto con l’arte non è mai iniziato! Nel senso che l’arte la intendo come qualcosa per esprimermi, un canale non di uso comune come il linguaggio; e nel fare questo, riesco a toccare delle cose che non potrei toccare con un’altra modalità. Poi, l’espressione di tutto questo confluisce in un dipinto o disegno e quando e se arriva al prossimo diventa arte. E ho anche lavorato molto su me stesso; è stato questo il mio percorso artistico.

Per quanto riguarda la chimica, proprio per questa mia visione pittorica non volevo partecipare a un percorso accademico perché avevo paura della valutazione. Essere valutati su un compito di matematica è semplice: è giusto o sbagliato. Ma se la valutazione si ha su qualcosa di così viscerale diventa difficile da metabolizzare e non volevo questo tipo influenza. Così alla fine, mi sono iscritto alla Facoltà di chimica (materia che avevo studiato meno al liceo) e anche perché non sapevo a cosa iscrivermi».  

 

Secondo te qual è il nesso fra la chimica e pittura? 

«La chimica è lo studio della materia e della sua trasformazione, la pittura è materia. Nasce con la manipolazione del colore che è anche una sorta di trasformazione. Il pittore e il chimico simbolicamente fanno la stessa cosa, solo che il chimico lo fa a livello microscopico, mentre il pittore a livello visivo. Chiaramente, in chimica ci sono delle regole piuttosto rigide, la pittura invece è una forma onirica della chimica dove tutto è possibile». 

 

Nella tua bio Instagram scrivi: «I miei dipinti si trasformano» ci spieghi meglio? 

«Ho sviluppato e brevettato una tecnica che consente ai dipinti di trasformarsi; a causa di una reazione chimica del pigmento cambiano nel tempo. L’idea l’ho avuta un giorno in visita alla Cappella di Sansevero guardando tutti i dipinti, che non hanno avuto bisogno di restauro, perché i pigmenti usati dal suo autore (il principe di Sansevero) erano ben sintetizzati. Poi, mi volto a sinistra rispetto al Cristo velato e vedo proprio il ritratto del principe completamente rovinato in certi punti, quelli della decomposizione del viso dopo la morte.

Il principe era avvezzo agli scherzi, anche macabri, e io ho immaginato che fosse qualcosa di voluto perché tutti gli altri dipinti erano intatti. Magari ha usato dei pigmenti più sensibili all’ossidazione e alla fine, forse, ha ottenuto questo effetto come Dorian Gray, prima ancora che venisse scritto. Ho pensato a questa cosa, e al fatto che in fondo io e il principe siamo colleghi: io chimico e lui un alchimista; così ho pensato che forse potevo sviluppare qualcosa del genere. Lì è nato il tarlo di sfruttare una diversa sensibilità chimica dei pigmenti. Alcuni sono stabili e altri reattivi per cui alla fine si può ottenere una trasformazione dell’immagine». 

Francesco Filippelli- Imago Dei, Maria-Miracolo Artificiale

Usi la tecnica definita “Temporama alchemico”. Di cosa si tratta?  

«Ho sfruttato il concetto in fisica del tempo, inteso come dimensione, linea, e ho usato l’analogia con la parola “Panorama”. Come da un panorama si può cogliere un’ampia porzione di spazio, da un “Temporama” si può cogliere una certa porzione o una porzione più ampia di tempo. Mi piaceva questa analogia con la fisica, perché in questi dipinti effettivamente c’è una dimensione del tempo, però è molto distesa perché il quadro si trasforma e nel farlo ha in sé anche tutti i momenti precedenti e quelli successivi. Addirittura, non si capisce quale sia il precedente e il successivo perché questi quadri vanno avanti e indietro. Un volto da giovane diventa vecchio e viceversa.

E “Alchemico”, perché a differenza della chimica, sottendeva attraverso la trasformazione della materia una trasformazione anche dell’anima, della spiritualità. Il senso è un po’ questo: noi ci rispecchiamo nei dipinti e anche questo diventa arte. Gli proiettiamo le nostre emozioni (ad esempio se guardo la Gioconda, vado a proiettare le mie emozioni e l’opera ci permette di vederla triste se siamo tristi e leggermente sorridente se siamo sereni). Nel mio caso è un po’ il processo inverso, questa proiezione la induco io attraverso la trasformazione e di riflesso, se questo specchiarsi avviene, pure la propria immagine dovrebbe cambiare. È come se questi quadri cercassero di trasformare l’osservatore». 

 

Pensi che il divenire e il disvelamento di un’opera possa far perdere l’immaginazione rispetto a un quadro statico (in cui ci si chiede magari come sarebbe stato un viso) o contribuisca a svilupparla? 

«In questi dipinti la proiezione è indotta, quella invece potenziata è la trasmissione del contenuto, anche di quello viscerale. A mio avviso, c’è una piccola perdita di immaginazione, compensata da un forte potenziamento della carica espressiva del dipinto, che arriva in maniera più potente.

D’altra parte, ho notato che le persone spesso si avvicinavano ai dipinti e in pochi secondi già avevano l’impressione che il quadro stesse cambiando anche se non stava realmente cambiando perché il cambiamento era lento; quindi la proiezione avviene lo stesso: in quei pochi secondi vedono la trasformazione anche quando essa è più lenta. Questa è una tematica aperta» 

 

Quanti tempo ti ci è voluto per sperimentare questa tecnica? 

«Un bel po’. Quando sono entrato alla Cappella di Sansevero ero ancora iscritto alla Facoltà di Chimica; poi, dopo un annetto e mezzo circa, avendo il tarlo, mi sono messo a pensare seriamente a come fare e dopo tre anni ho avuto il brevetto. È stato un percorso lungo e lo è tutt’ora di perfezionamento, perché la tecnica è uno strumento da usare in tanti modi e apre delle porte più che segnare dei traguardi». 

Francesco Filippelli tele e tempo

Francesco Filippelli – Imago Dei, Medusa

I tuoi soggetti preferiti? 

«La scelta del soggetto è funzionale all’espressione di certe cose, invece di altre. Ad esempio, dipingo spesso marinai e pescatori perché amo tutto ciò che riguarda la nautica e perché hanno quella caratteristica tipica degli uomini di mare di resistere alle bufere della vita in maniera intelligente. Il marinaio sfrutta a suo favore la corrente e il vento, avendo chiara la direzione da seguire e si rende conto che esistono fattori esterni che possono cambiare il percorso. Da un lato c’è questa forza di superare le tempeste e dall’altro di sfruttarle per avere in mente la propria direzione. Quando invece, voglio rappresentare un altro tipo di emozione come rabbia o paura scelgo altri soggetti». 

 

Quanti sono attualmente i ritratti in trasformazione? 

«Ci sono 6 dipinti del Temporama alchemico, una Madonna visitabile nella Chiesa di Quindici ad Avellino, un San Giovanni nella Basilica di San Giovanni Maggiore vicino l’Orientale e poi ci sono 7 dipinti della mostra Imago Dei. Ce ne sono altri 3, in questo caso delle nature morte». 

 

Quali sono le sensazioni degli spettatori che ti hanno colpito di più? 

«Generalmente, non rappresento la tristezza perché è un’emozione nascosta dentro di me; chi mi conosce sa che difficilmente dico cose tristi. Nel caso del Pianto di Maria è stato necessario accedere a quella finestra di tristezza ed è successo che in tantissimi si sono messi a piangere di fronte a quel quadro.

A me non fa tristezza perché quando lo guardo mi soffieremo sulla tecnica, però ho visto che chi entra rimane colpito emotivamente e l’inquietudine è data proprio anche dal fatto che la tela cambia senza schermi; ed è anche questo che spiazza l’osservatore». 

 

A tal proposito, dici a Informare online: «Riesco a toccare determinate corde che un dipinto statico difficilmente fa». Quali sono queste corde? 

«Abbattere le difese dell’osservatore per far arrivare in maniera più forte il messaggio del dipinto. Poi è chiaro, c’è anche la possibilità che il messaggio non arrivi, è soggettivo; però, secondo me, quando il messaggio c’è e pure l’apertura da parte dell’osservatore quando il dipinto si trasforma ci si destabilizza andando verso un contatto emotivo con ciò che vede.  

Il contraltare di questa cosa è che se dopo l’osservazione ci si vuole rifugiare nel pensiero più rassicurante si pensa: “Ma come ha fatto? Qual è il trucco?”. È difficile far capire che lavoro solo con il pennello e il trucco è la tecnica pittorica che sfrutta la chimica. Anche perché se sai qual è la reazione chimica cosa cambia rispetto all’osservatore? Non è che quando osservi un dipinto ti chiedi se c’è un giallo a base di cobalto o altro». 

Francesco Filippelli – Imago Dei, Hitler/Madre Teresa (opera su bene e male, due caratteristiche presenti nella natura umana e dunque l’una può trasformarsi nell’altra)

Che effetto ha fatto invece a te vedere per la prima volta queste opere cambiare davanti ai tuoi occhi? 

«Sembravo il dottore Frankenstein che urla “Si può fare!”. Le prime trasformazioni erano minime e le vedevo solo io, c’era una rughetta che compariva e scompariva. A un certo punto, mi sono reso conto che era possibile ed è stata una sensazione molto bella. Mi si è spalancato un portone di possibilità». 

 

Se dovessi realizzare un tuo ritratto lo faresti invecchiare o ringiovanire? 

«Credo di essere vecchio nell’animo, non mi ritrovo in tanti ragionamenti che fanno i miei coetanei, quindi forse partirei da vecchio e mi farei ringiovanire» 

 

Se potessi viaggiare nel tempo e mostrare la tua arte alchemica a un’artista o chimico, chi sarebbe? 

«Leonardo da Vinci, perché era inarrivabile sotto tutti i punti di vista. Era vegetariano non perché pensava che la carne facesse male, ma perché non voleva uccidere gli animali, quindi era di una bontà con tutti gli uomini e con il creato. E aveva un’intelligenza e creatività infinite; non credo che possa mai esistere una persona come Leonardo da Vinci, una persona che ne ha altre 100 in sé. Sarei proprio curioso di conoscerlo e sapere i suoi ragionamenti».

 

La prossima esposizione? 

«L’anno prossimo e sarà sulle intelligenze artificiali. Sempre dipinti in divenire su tela per un dibattito aperto sulle Ai con una domanda provocatoria: “Che senso ha oggi dipingere?”.  

Devo decidere il posto e spero sia una città estera. Il mio sogno sarebbe Londra, Parigi o Amsterdam anche per vedere la reazione delle persone». 

 

 

 

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