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Arte & Cultura

Firenze, Museo Archeologico Nazionale “Il mondo che non c’era”

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Vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo, raccontati in oltre 120 opere d’arte. Una grande mostra ci fa conoscere Il mondo che non c’era.

imageFirenze, 13 luglio – Capolavori mai visti della Collezione Ligabue, preziose testimonianze delle antiche raccolte dei Medici e prestiti internazionali ci accompagnano in uno spettacolare viaggio nelle civiltà precolombiane. Agli albori del XVI secolo l’Europa viene scossa da una scoperta epocale: le ”Indie”, “Il mondo che non c’era”. Un evento che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma – Grecia – Oriente; l’incontro di un nuovo continente è l’evento forse più importante nella storia dell’umanità secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss. A “Il mondo che non c’era”, alle tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni in quella terra è dedicata la spettacolare mostra che si terrà a Firenze, dal 19 settembre 2015 al 6 marzo 2016 al Museo Archeologico Nazionale, con un corpus di capolavori – quasi tutti mai visti prima d’ora – espressione delle grandi civiltà della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador) e delle Ande (Panama, Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dagli Olmechi ai Maya, agli Aztechi; dalla cultura Chavin, a quelle Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca. Fu un fiorentino del resto, Amerigo Vespucci, a comprendere per primo che leterre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un “Mundus Novus”, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, “America”.E i Medici, signori di Firenze, risultarono i primi governanti europei a decideredi preservare nelle loro collezioni alcuni degli affascinanti e spesso enigmatici manufatti arrivati dalle “Indie” come quelli dei Taino – gli indigeni incontrati da Colombo – che i conquistatores avevano portato in Europa. Tra i primi a considerare quegli oggetti vere opere d’arte fu Albert Dürer che, di fronte ai regali di Montezuma a Cortes, giunti a Bruxelles nel 1520, scrisse: “Queste cose son più belle che delle meraviglie […] Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti”. Promossa dal Centro Studi e Ricerche Ligabue di Venezia e dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana-Museo Archeologico Nazionale, prodotta con atto di mecenatismo da Ligabue SpA, con il patrocinio della Regione Toscana e del Comune di Firenze, la mostra presenterà pezzi eccezionali e unici appartenuti proprio alle collezioni medicee, così come opere preziose del Musée du Quai Branly di Parigi e di prestigiose collezioni internazionali. Ma il nucleo centrale sarà costituito da una vasta selezione di opere delle antiche culture Americane – mai esposte prima d’ora – appartenenti alla Collezione Ligabue. A pochi mesi dalla sua scomparsa, questa mostra vuole essere infatti anche un omaggio alla figura di Giancarlo Ligabue (1931- 2015) da parte del figlio Inti, che continua l’impegno nella ricerca culturale e scientifica e nella divulgazione, attraverso il Centro Studi fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo:paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore, imprenditore illuminato, appassionato collezionista. Oltre ad aver organizzato più di 130 spedizioni in tutti i continenti, partecipando personalmente agli scavi e alle esplorazioni – con ritrovamenti memorabili conservati ora nelle collezioni museali dei diversi paesi – Giancarlo Ligabue ha dato vita negli anni a un’importante collezione d’oggetti d’arte, provenienti da moltissime culture. Una parte di questa collezione sarà il cuore della mostra, curata da Jacques Blazy(tra i membri del comitato scientifico, André Delpuech capo conservatore al Quai Branly e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig) specialista delle arti preispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud. Un’esposizione straordinaria che consentirà di scoprire, attraverso oltre 120 opere d’arte, le società, i miti, le divinità, i giochi, le scritture, le capacità tecniche e artistiche di quei popoli. Un vero evento, in
particolare, sarà la presenza di diverse maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, e di un nucleo preziosissimo di vasi Maya d’epoca classica, preziosissime fonti d’informazione – con le loro decorazioni e iscrizioni – sulla civiltà e sulla scrittura Maya. Il viaggio, affascinante, nel cuore delle civiltà Mesoamericane prenderà dunque il via dalle testimonianze delle cultura Tlalica e Olmeca (dal 1200 al 400 circa a.C.), con esempi di quelle figurine antropomorfe di ceramica cava provenienti da necropoli – per lo più rappresentazioni femminili, con un evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato – che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi surrealisti. La cultura Olmeca si diffuse attraverso
tutta la Mesoamerica fino alla Costa Rica, compresa la regione di Guerrero (Xochipala) famosa per le statuine di donne nude, giocatori della palla, coppie o danzatori dai corpi modellati e realistici e, in genere, per la produzione lapidea (tra il 500 a.C e il 500 d.C.), che si svilupperà anche nella cosiddetta scultura Mezcala. Una manifestazione artistica tanto enigmatica nella sua semplicità quanto misteriosa nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore, artisti che diventarono anche collezionisti di quelle figure di pietra. Tra il 300 a.C e il 250 d.C. l’Occidente del Messico si distinse per la realizzazione di tombe a pozzo collocate sotto le abitazioni. Il viatico funebre di queste tombe – formato da ceramiche a forma di granchio, cane, armadillo, rospo – è eccezionale e offre importanti informazioni sulla vita quotidiana e la religione. Tra le varie culture associate a questa regione, quella di Chupicuaro (il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C.) è conosciuta per le statuette policrome di ceramica cava, delle quali sono in mostra alcuni notevoli esemplari, come la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre, la testa deformata e gli occhi aperti a mandorla appartenuta alla collezione Guy Joussemet e ora in quella Ligabue. Quindi Teotihuacan: il primo vero centro urbano del Messico centrale, letteralmente “la città dove si fanno gli dei” e dove furono costruiti monumenti emblematici come la Piramide del Sole, quella della Luna e la Piramide del Serpente piumato. Leggendaria l’abilità dei tagliatori di pietra di Teotihuacan; l’arte lapidaria appare molto stilizzata, persino geometrizzata e ha prodotto pezzi monumentali ma anche le famose ed inconsuete maschere di Teotihuacan. Concepite secondo un modello standardizzato, con il volto a forma di un triangolo rovesciato, fronte e naso larghi, labbra spesse e sopracciglia marcate, le opere esposte in questa occasione (tra cui alcune provenienti dalle collezioni antiche di André Breton e di Paul Matisse) potrebbero essere servite come maschere funerarie. Una di queste, La maschera in onice verde, conservata al Museo degli Argenti è appartenuta alla collezione dei Medici ed è un esemplare davvero notevole di quella produzione. Interessanti per la perizia tecnica dell’ampia decorazione, sono i due punteruoli realizzati in ossa di giaguaro, animale emblematico del mondo mesoamericano associato alle più alte funzioni politiche e sacre. I due strumenti, originari di Michoacan – ma con un’iconografia tipica di Teotihuacan, glifi, testa di felino, fiamme- sono di probabile
uso rituale, destinati per l’autosacrificio o a pratiche che implicavano la perforazione della carne: è incisa l’immagine del destinatario divino al quale il penitente offriva il suo sangue. Della cultura Zapoteca – che si diffonde nel Centro del Messico nella regione di Oaxaca dal 500 a.C. al 700 d.C e vede il suo centro nella città di Monte Albàn – sono altresì in mostra alcune delle famose urne cinerarie che appaiono dal 200 a.C al 200 d.C (II fase). Con la loro effige spesso antropomorfa, rappresentante un personaggio seduto con le
gambe incrociate e le mani sulle ginocchia – probabilmente Cocijo, dio zapoteco della pioggia, del fulmine e del tuono – sono state trovate in differenti inumazioni; e resta da chiarire ancora la loro funzione. Singolari anche le statuette realistiche in ceramica della cultura classica della Costa del Golfo (o cultura di Veracruz) decorate con bitume dopo la cottura, come anche le repliche in pietra di accessori del gioco cerimoniale della palla e le statue che rappresentano personaggi sorridenti o ridenti, davvero eccezionali nell’arte mesoamericana che frequentemente propone esseri impersonali e inespressivi. A introdurci nella cultura e nelle società dei Maya sono i sacerdoti, le divinità, gli animali addomesticati come i tacchini, i nobili riccamente adornati negli abiti e con bellissimi gioielli (spettacolare la collana di giada esposta) raffigurati in piatti, sculture o stele. Ma sono soprattutto i bellissimi e preziosi vasi Maya d’epoca classica, riccamente decorati, che forniscono informazioni sulla società e sulla scrittura di questa civiltà. Le divinità dell’inframondo, i giocatori della palla, i signori-cervidi e signori-avvoltoi, il drago celeste, il dio K’awiil o giovani signori dai copricapi piumati sono i protagonisti che popolano i vasellami in mostra. Sono Aztechi invece gli importanti propulsori o atlati – utilizzati per lanciare frecce – provenienti dalle wunderkammer medicee e ora nel Museo di Antropologia di Firenze: sono tra i pochissimi strumenti di questo tipo decorati in oro. Il viaggio continua con le testimonianze dal Sud America: dalla spettacolare produzione delle prime ceramiche delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, agli oggetti degli Inca; dal mondo dell’antico Chavin, dai tessuti e vasi della regione di Nazca, all’affascinante cultura Moche. Ma sarà l’oro – come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) – a spingere nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca dell’ “El Dorado”, uno dei grandi miti, vero motore della Conquista. L’America, che aveva stupito e affascinato con i suoi “strani” indigeni, la natura così diversa e le sue meravigliose opere, in breve viene considerata solo per le tonnellate d’oro e d’argento che giungono sui galeoni in Europa. E se i Medici a Firenze conservano nelle loro raccolte le testimonianze del Mondo che non c’era – tra i capolavori in mostra anche un collier Taino del XIV-XV secolo – gli Spagnoli fondono quegli oggetti in metallo prezioso per usarlo poi come moneta. In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno annichilite con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti delle culture precolombiane, di quella parte di umanità che, all’improvviso, nell’ottobre del 1492, comparve all’orizzonte dei navigatori in cerca delle Indie.

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