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Farha: il film sulla Nakba criticato da Israele e non visibile su Netflix per il nostro paese

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Farha film su Netflix
Tempo di lettura: 6 minuti

Il primo dicembre 2022 è uscito su Netflix Farha, il film sulla storia di una ragazza palestinese che assiste all’orrore della Nakba. Una pellicola, che ha suscitato numerose critiche e attacchi dai politici israeliani, media e utenti; tanto da non essere più disponibile sulla nota piattaforma streaming per il nostro paese. SPOILER ALERT

L’acqua di un ruscello scorre lenta e disseta un albero di fico, emblema della luce, della forza e della vita, mentre ogni goccia diventa passatempo per delle ragazzine. Tutte, tranne Farha (“gioia” in arabo), un’adolescente palestinese di 14 anni, intenta a leggere un libro, protagonista del primo e omonimo film drammatico della regista giordana Darin J. Sallam (2021). 

Farha (Karam Taher) è avida di sapere e conoscenza e sogna di studiare in città insieme alla sua amica Farida (Tala Gammoh) e, un giorno, di aprire una scuola per ragazze. Un desiderio che ha poco riscontro nella realtà del villaggio palestinese dove vive, in cui le ragazze della sua età sono già sposate o fidanzate, ed è permesso solo praticare gli studi religiosi. Farha, però, determinata riesce a convincere il padre (Ashraf Barhom) a sovvertire, in nome della sua passione per lo studio, quella regola ferrea.  

Ma il destino della ragazza e quello della sua gente sono già decisi dall’identità sionista. È il 1948, gli inglesi lasciano la Palestina e i villaggi cadono in mano dei colonialisti israeliani, fautori di quella che passerà alla storia come la Nakba (catastrofe del 1948), cioè l’esodo forzato del popolo palestinese dalla loro terra. 

Il padre di Farha, intuisce il pericolo e decide di mettere al sicuro la ragazza in un ripostiglio, con la promessa di tornare a prenderla. Lui, invece, non farà più ritorno e Farha trascorre i giorni e le notti in quel luogo buio e claustrofobico, con una sola fessura a separarla dalla violenza delle forze di occupazione israeliane compiuta verso una famiglia palestinese. 

La giovane non si dà per vinta e, con la morte nel cuore e quegli occhi testimoni innocenti di una strage, riesce a trovare dentro di sé la forza per reagire e lo fa anche grazie a un’arma nascosta nel rifugio dal padre. Finalmente, apre quella porta. 

Varcata la soglia, Farha non ha più davanti a sé lo stesso villaggio. Quell’Eden rigoglioso, seppur imperfetto, è ormai irriconoscibile. La ragazza, adulta nell’anima, ripercorre i luoghi legati alla sua giovinezza e agli attimi di serenità: il ruscello dove un tempo leggeva e l’altalena dove confidava gioie e dolori all’amica.

Sola con la dolcezza di un fico sulle labbra, simbolo di una nuova speranza di vita, si allontana dalla desolazione di una terra distrutta per sempre dalla sete di odio e potere. 

Farha è un film crudo, che tiene lo spettatore con il fiato sospeso e lo rende testimone, attraverso gli occhi della protagonista, delle atrocità compiute da Israele nei confronti dei palestinesi colpevoli di risiedere nella propria terra. Un risultato acuito da inquadrature strette sempre su Farha, che si dilatano solo per mostrare la differenza del villaggio prima e dopo il passaggio delle milizie israeliane. 

 

Farha: il film e storia vera, contro l’oppressione sionista criticato dalla politica israeliana

Il film, ispirato alla vicenda reale di Radiyye, una ragazza siriana che ha condiviso la sua storia tramandata da generazioni, è stato presentato al Festival di Toronto e alla Festa del Cinema di Roma nel 2021, ed è stato selezionato per rappresentare la Giordania agli Oscar 2023 come miglior film straniero, senza ottenere però la candidatura.  

A dicembre 2022 è stato inserito tra i film della piattaforma Netflix e, attualmente, il film non è visibile per i non residenti negli Stati Uniti, a meno che non si decida di cambiare la lingua in inglese o in arabo. Una soluzione, forse, poco democratica ed è il risultato di alcune minacce arrivate alla piattaforma. 

Infatti, subito dopo l’annuncio della sua diffusione sulla piattaforma, non sono mancate contestazioni da parte degli utenti israeliani che, pare , abbiano disdetto l’abbonamento, inserito commenti negativi sulla piattaforma IMDb (poi rimossi), e firmato una petizione online sul sito Action Network che titola «Netflix: Rimuovi il film antisemita sulla diffamazione del sangue “Farha», per chiedere alla piattaforma di rimuovere la pellicola.  

Anche il governo d’Israele e i suoi ministri Avigdor Liberman e Hili Tropper hanno criticato il film, definendolo antisemita e dichiarando che la pellicola «incita all’odio contro i soldati israeliani» e «si fonda su bugie». Questo perché, secondo lo Stato d’Israele l’esodo palestinese fu «un processo volontario» e «nessuno fu costretto a scappare sotto la minaccia delle armi».

Una visione dei fatti, invece, smentita dall’antropologo israelo-americano Jeff Halper secondo cui, molti massacri sono stati documentati e ammessi anche dagli stessi militanti in pensione, ma la Nakba non viene insegnata nelle scuole israeliane, perché riconoscerla significa mettere in discussione la legittimità dello Stato di Israele.  

Nakba 1948. Ph. Al-Haq, l’organizzazione dei diritti umani palestinese

Se da un lato, dunque, il film ha ricevuto molte critiche, dall’altro ci sono stati molti palestinesi che ritengono il film un’accurata rappresentazione della violenza subita dai loro parenti durante la Nakba e anche «Un inquietante promemoria della brutalità dell’occupazione», «La verità finalmente svelata» e «Il tanto atteso seguito di Shindler’s List» per citarne alcuni 

Un film sulla rappresentazione dei fatti che, secondo la CNN, «Offre una prospettiva sugli eventi che hanno portato alla fondazione di Israele che raramente si vede o si sente su una piattaforma mainstream globale». 

 

La Nakba e la storia che si ripete ogni giorno 

Questo film rappresenta anche una realtà che, a distanza da 75 anni dalla Nakba, persiste in Palestina. Infatti, l’entità di occupazione sionista d’Israele continua a compiere atti di violenza contro i palestinesi e contro chi si oppone al loro potere, e lo fa attraverso la demolizione di case e scuole palestinesi )come quella di Masafer Yatta), oppure attraverso la sottrazione di terre e proprietà, o con la detenzione amministrativa per chi protesta o difende i propri diritti.  

L’ultimo atto di violenza è il massacro del 26 gennaio, il più sanguinoso per i media in Cisgiordania dal 2002, nel campo profughi di Jenin.  Qui, le milizie sioniste hanno ucciso 10 palestinesi e, secondo quanto riportato dal l’organizzazione giovanile Giovani Palestinesi d’Italia, le forze d’occupazione sioniste avrebbero anche impedito ai soccorsi di raggiungere i feriti, sparando sulle ambulanze e lanciando lacrimogeni contro l’ospedale di Jenin, provocando lesioni da soffocamento ad alcuni bambini ricoverati.

Una violenza, alla quale i palestinesi dell’Università di Birzeit hanno manifestato solidarietà, scendendo in piazza con la popolazione del campo profughi di Jenin.

Giovani palestinesi dell’Università di Birzeit mentre manifestano in solidarietà con la popolazione del campo profughi di Jenin. Ph. Giovani Palestinesi d’Italia

A questi atti, si aggiunge anche la mancanza di libertà di ciascun palestinese che deve fare i conti con limitazioni imposte agli spostamenti nei territori palestinesi occupati o all’estero con reticolati, checkpoint militari, posti di blocco, e barriere.

Eppure, nel 2023 schierarsi contro questi abusi vuol dire essere additati come antisemiti; una facciata, che la stessa ex ministra ebrea Shulamit Aloni spiegò in questo modo «L’Antisemitismo?  È uno stratagemma, lo usiamo sempre. Quando qualcuno dall’Europa critica Israele, tiriamo fuori l’olocausto. Quando in questo paese le persone criticano Israele, questi vengono chiamati antisemiti».

L’ex ministra israeliana Shulamit Aloni- Ph. web

Queste sono dichiarazioni del 2002, ma ancora oggi condannare il regime di oppressione di Israele sarebbe come andare contro gli stessi ebrei, che in Palestina hanno trovato la loro terra e costruito uno Stato d’Israele definito “democratico”.

Lo stesso Stato che l’attivista e premio nobel per la pace afroamericano Desmond Tutu descrisse come il responsabile di persecuzioni e una condizione di apartheid « […]  In molti casi peggiore a quella della stessa Africa e piuttosto angosciante. […] I politici israeliani sono consapevoli, che possono farla franca con quasi tutto». 

Parole al vento, verrebbe da dire, poiché non ci si rende conto o non si vuole riconoscere che in Palestina si sta compiendo un nuovo atto persecutorio e d’apartheid, contro cui i palestinesi di vecchie e nuove generazioni lottano rischiando di perdere la vita e la libertà.  

 

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