Attualità
Fabio Magnasciutti e la fiammella che alimenta le sue vignette

L’illustratore e vignettista satirico romano Fabio Magnasciutti, ci narra i temi delle sue opere che parlano per immagini e parole.
“Foglie” in balìa del vento dell’indifferenza, “messaggi in carne e ossa” abbandonati in un mare empio, granelli del tempo che sfuggono; per non parlare dei cuori presi di mira e nostalgici di un amore romantico che quasi non esiste più. Questi sono solo alcuni dei modi di comunicare la nostra e la sua realtà, quella di Fabio Magnasciutti. Illustratore e vignettista romano (1966) che affida a personaggi inaspettati e fragili, con al seguito parole concise, l’incarico di fare aprire gli occhi su temi attuali: dall’immigrazione, all’inquinamento, fino alla violenza e alle relazioni.
Una missione nata dal bisogno di esprimere un cuore ardente fatto di colori primari, bilanciato a una natura “ombrosa” e a un linguaggio senza orpelli, che lo avvicina a fine anni ’80 al suo percorso professionale. Collabora con la Repubblica, l’Unità, il Fatto quotidiano, gli Altri, Linus e Left; cura sigle e animazioni dei programmi RAI 3 di “Che tempo che fa” (edizioni 2007 e successive) e di “Pane quotidiano”; crea illustrazioni per il programma AnnoZero (2010-2011) e Servizio pubblico.
A ciò, si aggiunge anche la formazione di nuove generazioni di artisti, perché Fabio insegna illustrazione editoriale presso lo IED di Roma; mentre nel 2005 fonda la scuola di illustrazione Officina B5. Non mancano poi le pubblicazioni “Mamma quante storie”, scritto da Andrea Satta e illustrato con Sergio Staino per Treccani, “Nomi così animali”, “Noi” e “Le foglie di Gianni” per citarne alcuni.
Ma Fabio non smette di stupire, perché oltre all’illustrazione e alle vignette fa sua anche un’altra forma d’arte, oltreché passione: la musica. Nel 1993 infatti, fonda la band Her Pillow di musica irish, folk e punk-rock, con un’anima 100% romana.
Quando inizia la passione per il disegno?
«Da sempre, da quando ho memoria. Non ricordo di aver fatto altro, a parte un’altra mia passione di cui non vivo la musica. Da quando ho memoria ho sempre disegnato, è più un’urgenza di esprimermi».
Da illustratore, a vignettista satirico. Com’è avvenuto questo passaggio e come hai capito che era la tua strada?
«Non c’è un momento esatto in cui l’ho capito. Non ho mai desiderato fare altro che questo e quando ho iniziato a pubblicare su scala nazionale, sicuramente ho capito che avrei potuto vivere di questo; quando ho iniziato a lavorare come illustratore alla fine degli anni ‘80.
Come illustratore satirico, invece, ho iniziato circa una quindicina di anni fa con il quotidiano l’Unità dove già lavoravo come illustratore. E poi, grazie a un paio di incontri in redazione mi sono anche cimentato ad aggiungere testi ad alcune immagini alla quali stavo lavorando; mi è sembrata una formula congeniale e l’ho portata avanti».
L’elemento che rende vincente una vignetta satirica?
«Ovviamente non esiste una regola, perché ogni vignettista ha le sue caratteristiche e criteri che dipendono anche molto dal proprio carattere, dalle proprie letture e dal background. Per quanto mi riguarda, avendo un amore sia per l’immagine, che per la parola credo sia la sintesi. Raggiungere un obiettivo con poche parole ed essenziali.
Poi, dipende anche dall’intento: se si vuole fare ridere o si vuole fare pensare. Credo che le cose arrivino meglio se ti toccano in profondità nel quotidiano, cliché molto legati alla vita quotidiana. E se arrivano a molte persone è perché, evidentemente, queste persone hanno conoscenza dei temi che tratto».
Se ti dico Gianni Rodari, cosa ti viene in mente?
«Quello che considero il mio secondo padre. Ho imparato a leggere su di lui. Lo amo, ho dedicato a lui un libro che ho scritto e illustrato, uscito l’anno scorso. Mi ha dato un imprinting molto forte».
La tua prima vignetta?
«Era quella per l’Unità, forse era il 2009. Più o meno era l’embrione di quello che sarebbe diventato il mio modo di fare vignette. In qualche modo, avevo messo in campo la volontà di mantenere un gusto illustrativo con l’inserimento di testi brevi».
Da cosa prendi ispirazione?
«Da tutto quello che mi circonda e ascolto. A volte ci sono delle notizie talmente dirompenti che è necessario affrontarle e altre volte, prendo ispirazione da qualcosa che vedo e ascolto, libri e film, chiacchiere che mi capita di fare o ascoltando ciò che dicono altre persone.
A volte, l’ispirazione arriva per puro caso e, se ne vengo attratto, cerco di tradurla in vignetta».
Ti è mai capitato di avere l’ispirazione di notte?
«Quasi sempre! Ho fatto migliaia di vignette, anche perché dormo male. Ho un sonno estremamente leggero e ho molto tempo per pensare la notte. In genere, le idee mi arrivano proprio di notte».
I temi a cui non puoi rinunciare?
«Un tema che tratto molto spesso, anche se non in tutte le vignette, negli ultimi anni è quello della migrazione. Credo che debba essere interessante per tutti. E in generale, parlo di temi molto più ampi come l’amore o il tempo. Dipende anche dal momento. Quando ad esempio c’è stata la pandemia non potevo non parlarne.
L’amore, però, sicuramente è un tema che mi capita molto spesso di trattare».
Durante il processo creativo cosa non deve mancare?
«La musica. Quella legata alla mia generazione: punk, post punk e ciò che mi ha formato in piena adolescenza come The Smiths, Joy Division, The Cure, Bauhause, Tom Waits, Leonard Cohen…».
Il tempismo è tutto per un vignettista. Come reggi o reggevi lo stress delle scadenze?
«Sono piuttosto veloce nella realizzazione e nel procedimento delle vignette, per cui non ho mai avuto grandi problemi da questo punto di vista. È una cosa che non mi stressa particolarmente, poi il lavoro che faccio sicuramente richiede un allenamento alla puntualità anche perché le redazioni non aspettano».
Nelle tue vignette sono importanti le immagini ma anche le parole, sempre asciutte e mai banali. Secondo te, in cosa consiste il giusto equilibrio tra immagini e parole?
«Non c’è per tutte le vignette lo stesso equilibrio. In genere, tendo a scriverne poche, perché magari voglio dare più spazio all’immagine da un punto di vista visivo e poi perché tendo a far parlare i personaggi come parlo io, in modo colloquiale e sintetico. Sono abbastanza asciutto e non mi piacciono molto i fronzoli o spiegoni nelle vignette. Insomma, non credo esista una dose precisa; cambia di volta in volta».
A The Clerks dichiari “Il mio è un approccio laterale, mai frontale”. In che senso?
«Lo sguardo laterale è fondamentale per chi fa il mio mestiere. Penso sia importante guardare i lati nascosti di qualsiasi situazione, perché poi arrivi a conclusioni con il rischio di sembrare qualcuno che sale su un piedistallo per raccontare la verità. Io la verità non ce l’ho e non sono in grado di fornirla, perché mi interessano gli aspetti nascosti delle parole, delle immagini e degli eventi che accadono.
Raramente, in passato, quando lavoravo per Il Fatto quotidiano mi è capitato di fare qualche rappresentazione di personaggi politici. Ma invece di riferirmi al potente o politico di turno, preferisco riferirmi a chi li vota, perché i politici non sono mostri che cadono dal cielo ma sono sempre figli di scelte individuali che diventano poi collettive.
Laterale significa, per me, rivolgermi non sulla concretizzazione del problema, ma su ciò che lo ha creato».
Osservi la realtà per la realizzazione di ogni tua vignetta; che idea ti sei fatto di questo mondo?
«Nessuna. È talmente cangiante! Ho difficoltà a dirti come lo vedo. Lo vedo anche attraverso il momento che sto attraversando: se sono felice, vedo tutto molto bello e se non lo sono, lo vedo meno bello. Il mondo va avanti perché 8 miliardi di persone si comportano in altrettanti modi differenti. Spero solo che ci sia una maggiore attenzione per i piccoli e i grandi temi, che in questo momento non c’è».
Hai collaborato, dunque, con diverse testate. É mai stata censurata una vignetta?
«No, mai. È capitato che mi chiedessero degli aggiustamenti, ma la censura mai. Anche perché, non utilizzo un tipo di satira che offende qualcuno e non mi permetto, perché no ho le credenziali per trarre conclusioni rispetto a temi che conosco magari, solo marginalmente».
Insegni illustrazione editoriale presso lo IED di Roma. Quale consiglio daresti a chi vorrebbe dedicarsi all’illustrazione?
«Cercare di capire se è davvero la tua strada, e puoi farlo in base a quanto ci pensi durante il giorno. Questo lavoro è quasi esclusivamente da free lance, quindi le tutele sono quasi zero; se lo fai per una questione legata solo ai soldi stai già sbagliando strada.
In generale, il primo passo è quello di cercare di capire se sei dispost* a notti insonni, a cominciare a osservare ciò che ti circonda in modo differente e capire che anche le cose apparentemente banali possono raccontare delle storie. Capire se hai accumulato del materiale che, nel tempo è “degno” e vuoi tirarlo fuori in una forma che poi sceglierai (racconto, immagine, libro illustrato).
Questo è un primo passo, poi le tecniche si imparano; le scuole esistono per questo. Ciò che conta davvero è quanto grande e accesa la fiammella che ha dentro, perché dopo un po’ di tempo quella si spegne ed è un po’ difficile portare avanti un lavoro di questo tipo. È importante, come dicevo all’inizio, la passione e l’urgenza che hai».
Sei fondatore della scuola di illustrazione senza esami Officina B5. Come nasce l’idea e quali sono le attività al suo interno?
«Nasce da una scuola precedente, dove lavoravo e che ha chiuso. Erano rimasti degli studenti che non avevano terminato il percorso di studi e quindi con un mio collega e amico abbiamo deciso di prendere un piccolo locale accanto al nostro studio per dare stimoli a questi ragazzi. Non avevamo idea di quanto e se sarebbe durata.
Il passaparola poi ha funzionato e hanno iniziato a iscriversi ragazzi anche negli anni successivi. Ormai sono 18/ 19 anni che questa piccola scuola, bottega, va avanti. Le attività che si svolgono all’interno sono legate al mondo dell’illustrazione, con docenti che si occupano di campi specifici, e i ragazzi stanno lì a tempo pieno o quanto vogliono, e si condivide. I ragazzi hanno anche modo di vendere all’opera noi professionisti».
Tra le tue vignette ce n’è una che preferisci?
«No. Ci sono state alcune vignette che hanno generato qualche pensiero in più, ma in generale no. Credo non sia opportuno considerare un capolavoro ciò che si fa, perché se si ha un punto di riferimento si tende a replicarlo; quindi, sconsiglierei proprio questo atteggiamento.
Magari rimani affezionato a una cosa per un determinato momento o circostanza.
Ma è come chiedere a un genitore quale figlio preferisce».