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Attualità

Da Palermo a Milano. In viaggio con Antonio Calabrò

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Giornalista, scrittore, docente universitario della Cattolica di Milano, manager di istituzioni imprenditoriali e culturali.

Giornalista, scrittore, docente universitario della Cattolica di Milano, manager di istituzioni imprenditoriali e culturali. Nato a Patti, in provincia di Messina, nel 1950 (“C’era la casa dei miei nonni, amatissimi”), vissuto a Palermo e poi, dall’inizio del 1986, a Milano. Una vita densa, spesso in giro per il mondo. Gli abbiamo chiesto di raccontare il suo viaggio, ancora in corso.

Giornalista per L’Ora di Palermo, passato poi a Il Mondo, quindi a la Repubblica. È stato vicedirettore e poi direttore editoriale del gruppo Il Sole24Ore, ha diretto La Lettera finanziaria e quindi l’agenzia di stampa ApCom collegata con l’Associated Press, ha collaborato con Panorama, L’Europeo e Paese Sera.

Ha scritto e continua a scrivere libri per lo più con indirizzo storico-economico tra cui “L’impresa riformista“, “La morale del tornio” e “Europa nonostante tutto”, ma anche “I mille morti di Palermo” e “Cuore di cactus”. Ha pubblicato un libro scritto con suo figlio Carlo, “Bandeirantes – Il Brasile alla conquista dell’economia globale”. Lo scorso anno, proprio nei mesi più difficili della pandemia, un nuovo libro: “Oltre la fragilità”.

Gestisce il suo blog di Huffington Post sui temi della cultura d’impresa, scrive di libri sul Giornale di Sicilia e La Nuova Sardegna ed è stato, sino allo scorso anno, presidente della società editrice de “Il Cittadino”.

Attualmente è Head of Istitutional Affairs della Pirelli e direttore della Fondazione Pirelli, vicepresidente di Assolombarda e dell’Unione Industriale di Torino, presidente di Museimpresa, un’associazione che ha il compito di valorizzare il patrimonio di oggetti, immagini e documenti, memoria delle attività imprenditoriali italiane. E’ consigliere di amministrazione di Nomisma, Università LIUC di Castellanza, Touring Club, Orchestra Verdi di Milano, Fondazione Pier Lombardo, Camera Arbitrale di Milano. Membro dell’Advisory Board della Fondazione Unipolis e di UniCredit Lombardia e del Comitato Esecutivo dell’Aspen Institute Italia.

Un curriculum fitto di esperienze e responsabilità, ma di un uomo con una notevolissima sensibilità che ama la fotografia, la sua Sicilia, e che si definisce “un lettore curioso”. Comincio proprio da qui.

 

Come riesce a conciliare, se esiste, la dicotomia tra le profondità che le appartengono e la sua attività?

Non credo che esista una dicotomia tra il lavoro intellettuale e l’impegno quotidiano in un’impresa, tra le responsabilità associative e organizzative e l’attenzione per lo studio, la ricerca, l’approfondimento. L’identità di ognuno di noi è complessa, molteplice, ricca di aspetti vari e perfino contrastanti, contraddittori: un’identità ricca di diversità. E il cardine che tiene tutto insieme è la curiosità, il desiderio costante di scoprire, capire, sapere. Una curiosità che riguarda le persone, i luoghi, le tante dimensioni della conoscenza. Ho fatto, per trentacinque anni, il giornalista: un mestiere che obbliga ad andare, vedere, cercare di capire, raccontare. Un lavoro fondato sull’attitudine a fare domande. Ma queste sono dimensioni che, in modo diverso, riguardano anche la mia condizione attuale di uomo d’impresa. Fare impresa significa fare cultura: una cultura politecnica, sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche e tecnologiche. E lavorare in un’impresa, su mercati aperti e competitivi, richiede sempre l’attenzione a ricercare la migliore soluzione a un problema, conciliare dimensioni complesse: la produzione e la sostenibilità ambientale e sociale, gli interessi diversi tra imprenditori e lavoratori, i valori degli azionisti con quelli degli stakeholders e cioè i dipendenti, i fornitori, i consumatori, i cittadini delle comunità con cui l’impresa entra in contatto. Si lavora per trovare, giorno dopo giorno, una dimensione di innovazione. E tutto ciò chiede creatività, sensibilità, cura dell’esattezza e passione per fare bene le cose. L’impresa è una macchina straordinaria, ma anche una comunità dinamica, inclusiva, sempre aperta al cambiamento. C’è un’espressione che, in Pirelli, amiamo molto: umanesimo industriale. E’ un tratto culturale e, perché no?, etico. L’elemento distintivo della nostra cultura d’impresa. Affinato nel tempo d’una lunga storia: il prossimo anno, nel gennaio 2022, la Pirelli compirà 150 anni. E siamo ancora qui, con attività in tutto il mondo e con una continua crescita, grazie anche al dinamismo delle nuove generazioni che entrano in azienda, perché teniamo insieme la responsabilità della memoria e il gusto del futuro.

Come immaginava il suo futuro il giovane Antonio Calabrò? Cosa si è realizzato e cosa non immaginava assolutamente potesse accadere?

Sono stato un uomo molto fortunato. Fare giornali mi affascinava fin da bambino. Poi, al liceo, ho diretto il giornale d’istituto, “Il Garibaldi”. E a ventun anni sono entrato a L’Ora, cominciando così un lungo percorso appassionante, felice. Avrei anche voluto insegnare. E mi è successo: per anni in Bocconi e da tempo in Cattolica. Nel 2006 un’inaspettata svolta di vita: la proposta fatta da Marco Tronchetti Provera di andare a lavorare in Pirelli. Accettata dopo un paio di giorni di riflessioni. Un radicale cambio di lavoro, esigenze professionali, punti di vista da cui osservare il mondo. Adesso, a 15 anni di distanza, sono davvero felice di questa svolta: cambiare, costruire un nuovo bagaglio di competenze, studiare cose sconosciute e applicare strumenti giù usati a nuove esigenze, sperimentare inedite responsabilità è quanto di meglio possa capitare. Sono soddisfatto. E spero che la sorte mi regali ancora altre possibilità. Si cresce e si impara sempre, finché la vita continua.

La scrittura è il fil rouge che sembra accompagnarla. In un’intervista del 2016 su Sette, del Corriere della Sera, racconta di aver scritto il suo primo articolo a otto anni. Sicuramente avrà avuto la fortuna di avere un mentore che le ha trasferito la passione per la lettura e la scrittura. Vuole parlarcene?

Ho imparato mestiere e vita da grandi direttori, Vittorio Nisticò e Nicola Cattedra negli anni de L’Ora, Giulio Anselmi a Il Mondo, Eugenio Scalfari a la Repubblica, Lamberto Sechi e poi Carlo Rognoni durante la collaborazione a Panorama. Scrittura come esercizio costante di precisione e di chiarezza, giornalismo come mestiere artigiano che chiede cura, passione, attenzione umana e senso di responsabilità civile. Mi fa piacere ricordare anche gli anni da vice direttore de Il Sole24Ore, con la direzione di Ernesto Auci: era un giornale bellissimo, con una redazione di grande qualità. Un giornalismo essenziale, costruito su dati, fatti, analisi ben documentate, inchieste ricche di competenze e originali punti di vista.

Passione per la scrittura e il giornalismo sono state conseguenziali. Quali le passioni che l’hanno portata invece alle attività manageriali?

Per anni, da giornalista, a Milano, ho raccontato l’economia: affari, interessi, passioni, ma anche valori forti e gusto per l’intraprendenza. Grazie al lavoro in Pirelli e poi alle responsabilità in Assolombarda e in Confindustria ho scoperto le complessità dell’economia e dell’impresa dall’interno, la fatica e la bellezza delle trasformazioni, la severità dell’intelligenza applicata alle macchine, il piacere dell’impegno di donne e uomini d’impresa nel raggiungere un nuovo risultato, aprire una nuova fabbrica, trasformare un brevetto frutto di anni di ricerca in un prodotto o in un nuovo e migliore processo produttivo. La fabbrica è un luogo straordinario dell’intelligenza e dell’operosità. E voglio qui ricordare un’emozionante pagina di Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta, una vita di lavoro in Olivetti, Pirelli, Alfa Romeo e Finmeccanica: “Entro in fabbrica a capo scoperto, come si entra in una basilica e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito…”. Ecco, anche questo è “umanesimo industriale”.

Cosa, secondo lei, ha mutato il giornalismo e perché i giornalisti sono sempre più alla ricerca di scoop e meno di “contenuti”?

La rete ha cambiato anche il giornalismo, così come tanti altri aspetti della nostra vita e del lavoro. Altre tecniche, altro pubblico, altro linguaggio. Con alcuni elementi positivi, come il cosiddetto “citizen’s journalism” e cioè la partecipazione attiva delle persone alla ricostruzione di un fatto di cronaca, a un’inchiesta. E con altri elementi negativi: l’approssimazione dei giudizi privi di competenze, la diffusione delle fake news, le manipolazioni di propaganda. Ma le persone hanno bisogno di buona informazione, senza cui entra in drammatica crisi la nostra stessa convivenza politica e civile. E così tocca agli editori e ai giornalisti farsi carico della responsabilità di costruire buoni prodotti editoriali, di qualità, attendibili, rispettosi della verità dei fatti e dell’intelligenza del lettore. Credo sia sempre valida la scritta che c’è sotto la testata del Washington Post, uno dei maggiori e migliori giornali americani: “Democracy Dies in Darkness”, la democrazia muore nelle tenebre, nell’oscurità in cui pretende di nascondersi il potere.    

In questo viaggio ancora in corso quali sono state le “soste” più importanti e quale o quali avrebbe voluto prolungare?

Penso a Ulisse, la figura del mito su cui continuo a leggere e rileggere: è un uomo inquieto, curioso, intraprendente, sempre affascinato dalla navigazione e dalla scoperta. Itaca è un porto sicuro, in cui fermarsi. Per poi ripartire. Mi piacciono i racconti di viaggio, i grandi scrittori di mare come Stevenson, Conrad e Melville. Il “Breviario mediterraneo” di Predrag Matvejevic. Le tavole di Corto Maltese disegnate da Hugo Pratt. La nostra vita non è altro che un viaggio, sino al termine della notte. Sperando che duri a lungo. E che, in un racconto, ne resti qualcosa. Una testimonianza. Un ricordo. Per fare vivere, immaginare e sognare altri viaggiatori. 

Un’ultima domanda, cosa è rimasto in lei dell’uomo del Sud?

Tutto. La luce e il lutto. La memoria dolorosa delle fratture e la speranza nelle battaglie per i cambiamenti. Il lento pensiero meridiano. E il piacere del cibo ricco di colore e di gusto. L’ironia del barocco. E l’attrazione per il gesto teatrale che rompe l’attitudine alla riservatezza. Il disgusto per “gli sciacalletti e le jene” arrivati dopo il declino colpevole dei Gattopardi. L’amore per la scrittura letteraria e poetica. Il sogno dell’alba caliginosa in cui intravvedi le isole verso cui stai navigando. E soprattutto la consapevolezza mediterranea di un’antichità di cui si deve nutrire l’attualità, come ci ha insegnato Jannis Kounellis. Per guardare e costruire futuro. D’altronde, proprio Milano, metropoli aperta e inclusiva, non è forse una grande città mediterranea?

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