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Croazia: mondiali e xenofobia. Quando il calcio si trasforma in odio

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Il piccolo Paese balcanico è arrivato secondo ai mondiali di Mosca e ha celebrato l’evento. Numerose le frasi d’odio contro i serbi. Le ferite delle guerre di Jugoslavia bruciano ancora.

di Vito Nicola Lacerenza.

“Il calcio è un gioco ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere un gioco”- ha detto lo scrittore Simon Kuper, che con le sue parole sembra aver descritto quanto accaduto in Croazia il 16 luglio di quest’anno. Data in cui a Zagabria, capitale croata, 700.000 persone hanno festeggiato la qualificazione al secondo posto ottenuta dalla nazionale croata ai mondiali di Mosca. Un evento per il piccolo Paese slavo che conta appena 4 milioni di abitanti. Un motivo d’orgoglio che è stato tramutato in odio etnico da un esponente del partito di governo di estrema destra croato, Josip Stimac. «Lunedi 16 luglio è stato il giorno più importante  nella storia della Croazia- ha detto Stimac- dopo quelli dell’indipendenza del 1991, dell’operazione Oluja (Tempesta) nel 1995 e dell’assoluzione in appello del comandante  Ante Gotovina (ex generale croato accusato di crimini di guerra)».  Josip Stimac era molto vicino all’ex presidente croato nazionalista Franjo Tudjman, che nel 1991 proclamò l’indipendenza della Croazia dalla Jugoslavia e diede inizio al suo progetto di “omologazione etnica”, per “liberare” la Croazia da popoli estranei, come i serbi che popolavano la regione croata della Krajina.

Temendo di subire violenze da parte delle autorità locali, i serbi di Krajina iniziarono una rivolta armata e proclamarono la regione da loro abitata “Repubblica di Krajina”, che ebbe vita breve. Nel 1995 l’allora generale croato Ante Gotovina, al comando dell’operazione Oluja (Tempesta), riprese il controllo della zona, mettendo in fuga oltre 200.000 serbi. L’operazione militare rappresenta una delle pagine più tragiche delle guerre di Jugoslavia. Il fatto che il governo croato si sia servito del successo calcistico per esaltare l’evento bellico ha preoccupato gli osservatori politici. Per loro il richiamo al nazionalismo è stato un tentativo del governo di distrarre il popolo dai problemi reali. La Croazia è sull’orlo di una gravissima crisi economica.

La produzione arranca, la disoccupazione sale, l’inflazione aumenta e la principale azienda croata, Agrokor, è sull’orlo della bancarotta. Agrokor è una catena di supermercati che in Croazia dà lavoro a 150.000 persone ed altre decine di migliaia in Slovenia, Serbia, Montenegro. Il fallimento dell’azienda condurrebbe i Paesi balcanici verso la catastrofe economica. La Croazia perderebbe il 15% del PIL. Non è la prima volta che la crisi economica alimenta i nazionalismi nei Paesi slavi. Anche negli anni 80  in Slovenia, Croazia, Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia l’estrema destra ha preso piede in seguito a una forte recessione. All’epoca le sei nazioni erano repubbliche federate di Jugoslavia ed erano governate dal dittatore socialista Josip Tito. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1980, le repubbliche jugoslave si ritrovarono a dover negoziare tra di loro, mentre una terribile crisi economica esasperava i popoli balcanici che cominciavano ad incolparsi a vicenda per la terribile situazione creatasi.

Gli scaffali dei supermercati vuoti, l’assenza di medicinali, il razionamento del carburante e l’inflazione al 2.600% erano considerati dai vari governi jugoslavi come le prove tangibili del fallimento del progetto politico di Tito. Una repubblica federale di Jugoslavia intesa come “L’unione in un solo Stato di tutti i popoli slavi”. Un’idea che, dopo la morte di Tito, verrà rifiutata apertamente. Specie nel Kosovo, che all’interno della Jugoslavia costituiva una provincia della Serbia. Il Kosovo all’epoca era abitato prevalentemente da albanesi, popolo non slavo e che per tale ragione considerava la Jugoslavia come “una costruzione politica artificiale messa in piedi dagli slavi per compromettere gli interessi degli Albanesi”, che chiedevano l’indipendenza. La repressione della polizia serba contro gli indipendentisti albanesi fu brutale, così come le violenze che la comunità serba del Kosovo subì da parte degli albanesi.

E’ in quel clima di odio etnico che trovò consenso l’ex presidente nazionalista serbo Slobodan Milošević, l’artefice della strage di Srebrenica, il massacro più terribile dopo la seconda guerra mondiale. Milošević si presentò al suo popolo come colui che avrebbe difeso i serbi dagli albanesi e dai Croati. A questi ultimi  Milošević rinfacciava i crimini di guerra compiuti durante il secondo conflitto mondiale dalle truppe nazi-fasciste croate, gli “ustascia”. Per mano loro morirono migliaia di serbi. Ma la propaganda anti-croata si fondava anche su ragioni economiche. I serbi ritenevano che la tremenda recessione fosse causata dal fatto che la Croazia, insieme alla Slovenia, avesse sfruttato la federazione jugoslava per arricchirsi sulle loro spalle. Idea condivisa anche da altre repubbliche jugoslave come il Montenegro, la Macedonia e il Kosovo. I tre Paesi erano di fatto più poveri rispetto alla Croazia e  alla Slovenia, che lamentavano di destinare troppe risorse agli aiuti economici agli altri Stati jugoslavi. Il fronte anti-croato finì per alimentare in Croazia la paura di un’invasione, sopratutto da parte dei serbi che negli anni 80-90 abitavano la regione croata della Krajina. Tale timore fu cavalcato dal leader nazionalista croato  Franjo Tudjman, che nel 1990 raggiunse la presidenza del Paese basando la sua campagna elettorale sull’idea di “una Croazia per soli croati” e sulla necessità di difendersi dagli aggressori esterni. Da tali tensioni politiche si delinearono i due fronti delle guerre di Jugoslavia: Croazia e Slovenia contro Serbia, Montenegro, Macedonia e Kosovo. Centocinquantamila persone morirono in quel conflitto, ma la propaganda nazionalista di allora sembra risorgere con la nuova crisi economica.

 

 

 

 

 

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