Italiani nel Mondo
Cosa vuol dire ‘discriminazione’? Parte 1- What does discrimination mean? Part 1
Cosa vuol dire ‘discriminazione’? Parte 1
La bellezza e la stupidità non hanno colore di pelle o religione, e perciò non esiste paese che non pratica discriminazioni contro le minoranze del posto, e troppo spesso le vittime di queste discriminazioni sono gli immigrati e i loro figli.
In questo e nel prossimo articolo vorrei spiegare come funzionano queste discriminazioni, non raramente anche a livello ufficiale, e che poi sono la causa vera di scontri sociali, e anche morti che leggiamo nei giornali.
Quando ho iniziato la scuola in Australia non parlavo una parola in inglese, e il motivo è semplice. In casa parlavamo solo in italiano e quindi io, come tutti i figli di immigrati, e non solo in Australia, ho dovuto superare barriere che non erano solo della lingua.
La prima barriera è stata quando ho iniziato a scrivere e abbiamo fatto i primi compiti.
Era una scuola parrocchiale dove la chiesa era anche utilizzata come aula della scuola, e naturalmente, mentre scrivevamo, la monaca faceva il giro degli studenti, e quando ha visto che ho cominciato a scrivere “Giovanni”, mi ha detto “Write John”, cioè, di scrivere la versione inglese del mio nome.
Ho rifiutato, come ho sempre rifiutato negli anni dopo, non solo perché il mio certificato di nascita ha il nome “Giovanni Pezzano”, ma anche perché mi riconosco con quel nome, anche se preferisco la versione abbreviata di Gianni.
Questo è successo a ogni cambio di scuola, sempre cattoliche, e anche con ogni cambio di insegnante, molti dei quali mi hanno detto la stessa cosa, sempre con la stessa risposta. Infatti, il mio soprannome a scuola era “Gio”…
Ovviamente questa è una forma di discriminazione, ma non si limitava al mio nome.
Gli insegnanti giudicavano noi figli di immigrati, e c’erano diverse nazionalità in ogni classe, non raramente la maggioranza degli studenti in una classe, in base alla nostra pronuncia imperfetta dell’inglese, oppure semplicemente secondo le nostre origini, e non importavano i voti ottenuti in materie dove la lingua non era importante, come la matematica…
Gli studenti australiani hanno cominciato molto presto a fare battute brutte per deridere noi figli di immigrati. Battute che all’inizio, non capivamo per il basso livello di inglese dei primi anni, e poi abbiamo cominciato a comprendere i luoghi comuni che ora capisco anche i miei genitori e zii soffrivano nei luoghi di lavoro.
Poi, con la capacità di capire l’inglese, ci è voluto poco per capire il luogo comune di “Italians are mafia”, e anche altre “battute” come “se l’Australia e l’Italia andassero in guerra per chi combatteresti?”. E abbiamo tutti sentito quelle battute in tutta la nostra vita, dalla scuola, al lavoro.
Purtroppo, solo nel corso degli anni, e dopo aver sentito quella domanda della guerra in ogni anno della mia scuola.
E, visto che sono nato del 1956, nel corso del tempo non è stato difficile capire che non pochi padri dei miei coetanei avevano veramente combattuto contri soldati italiani. Solo anni dopo ho saputo che due miei zii e un mio compare erano stati prigionieri di guerra proprio di reggimenti australiani.
Odiavo quella domanda all’epoca, e la odio tutt’ora, perché, in un certo senso, le due parti della mia identità sono sempre state in lotta tra di loro, perché tutti gli autoctoni considerano noi figli di emigrati italiani all’estero “italiani”, ma quando andiamo in Italia per le vacanze per conoscere i parenti, oppure chi, come me, ha deciso di traferirsi in Italia, siamo considerati “australiani”, “americani, “inglesi”, ecc., ecc., ecc.
All’epoca i nostri genitori davano la colpa per questi atteggiamenti alle prime teleserie americane, ora considerate “fiction” in Italia, trasmesse alla televisione australiana dove i cattivi erano sempre italiani bassi, con capelli neri e pelle scura. Ma gli anni hanno insegnato che non si limitava a questi programmi, ma anche i giornali che non si negavano la minima possibilità di mettere un italiano sulla prima pagina come “criminale”, anche per reati che di solito non fanno parte della cronaca nera…
Purtroppo, queste esperienze si estendevano anche nella vita fuori la scuola e il lavoro.
Non era affatto raro mentre viaggiavo con mamma sul pullman parlando in italiano con lei, o andando per strada con lei, altri amici italiani, oppure turisti italiani, sentire dire da un uomo o una donna con accento australiano, “You’re in Australia, we speak English here” (Siete in Australia, si parla in inglese qui). E succede ancora in Australia, e anche in molti altri paesi.
Non voglio parlare delle mie reazioni a questo commento che sono cambiate nel corso della mia vita, ma di un aspetto che molte delle persone che fanno questi commenti non capiscono.
Non è semplicemente il fatto che non esiste alcuna lingua ufficiale in Australia, ma di un diritto universale, il più famoso, cioè il diritto di espressione e di opinione. Abbiamo il diritto di scegliere la lingua con cui parliamo con il nostro interlocutore di turno.
Basta solo fare notare che il 18 luglio, 1979, nel Parlamento dello Stato di Victoria, il Deputato Giovanni Sgrò, un immigrato italiano, eletto per il Partito Laburista del paese, ha fatto parte del suo primo discorso in aula in italiano. (Link al discorso).
Inoltre, abbiamo il diritto di avere la possibilità di imparare la lingua delle nostre origini, ma questo accade raramente. Un esempio è stato nelle mie scuole in Australia dove i figli di immigrati erano una grande percentuale degli studenti, ma l’unica scelta di seconda lingua alle scuole che ho frequentato era il francese, quando non c’era nemmeno uno studente francese in quelle scuole.
E questa mancanza di opzioni dovrebbe anche fare capire a molti come la nostra Cultura è considerata in altri paese e che dobbiamo tenerlo in mente quando facciamo promozione della nostra Cultura all’estero…
Difatti, ho parlato con i miei genitori solo in italiano, sempre inglese con mio fratello ed i cugini, ed in italiano o inglese a seconda con quale zio o zia. Questo è del tutto naturale tra le famiglie di immigrati, come sento spesso tra emigrati anche in Italia, con la triste constatazione che ora sento in italiano quel che gli australiani dicevano a noi italiani in Australia.
E confesso che questi episodi mi fanno sentire MOLTO a disagio.
Questa discriminazione verso i figli di immigrati in Australia poi andava oltre l’educazione formale degli studenti.
Negli anni ’70, le scuole che molti di noi hanno frequentato, ancora una volta spesso cattoliche, ma anche statali, e ora persino i collegi protestanti, considerati i più importanti e prestigiosi di un Paese che utilizza il sistema di governo e amministrazione britannico, hanno iniziato a fornire consulenza per la carriera agli studenti.
Bisogna spiegare che questo succedeva prima della maturità perché in Australia, con il numero chiuso di studenti universitari, bisogna prepararsi intensivamente per gli ultimi anni per raggiungere i livelli necessari per qualificarsi per corsi universitari come Medicina, Giurisprudenza, Ingegneria, e Architettura.
Il sistema era, ed è ancora crudele e per poter frequentare questi corsi bisogna studiare intensamente per ottenere un altissimo livello agli esami di maturità statali, perché in Australia conta solo il voto dell’esame statale di maturità per poter iscriversi all’università. E non pochi studenti ripetono l’ultimo anno di scuola per poter fare la carriera che sognano.
E anche nella scelta delle carriere, almeno nei primi anni, i figli di immigrati hanno dovuto affrontare le barriere della discriminazione, anche in luoghi come licei prestigiosi, cattolici e non, particolarmente le studentesse.
Tutti gli studenti figli di immigrati incontravano i dubbi dei loro insegnanti, ma nel caso delle studentesse, i luoghi comuni verso le donne italiane erano tali che i consiglieri consigliavano di fare le commesse, parrucchiere, donne delle pulizie, ecc. e quasi mai le carriere da medici, avvocati, e così via che sognavano.
Il fatto più triste di questa situazione delle ragazze è che, in moltissimi casi, i lavori consigliati era proprio quelli che facevano le madri che sognavano che le figlie facessero carriere importanti.
E bisogna lodare quelle ragazze italo-australiane che hanno sfidato queste discriminazioni diventando professionisti di ogni genere.
Questa era la vita degli emigrati e i loro figli in Australia e ho pochi dubbi che i nostri lettori in altri continenti abbiano avuto le stesse esperienze.
In questo articolo ho voluto descrivere le esperienze nelle scuole che dovrebbero essere luoghi di rifugio per i giovani, ma che spesso sono state anche campi di battaglia e non sempre accademiche o verbali.
Infatti, non mi vanto del fatto che una volta ho dovuto rispondere fisicamente contro un coetaneo che rifiutava di smettere di offendere. Per fortuna, è bastato un pugno per stenderlo, ma almeno dopo quell’incidente non ha mai più disturbato altri…
Utilizzo incidenti in Australia, ma la mia intenzione NON è di incolpare solo quel paese, ma voglio dare testimonianza di esperienze dirette. Abbiamo avuto articoli di altri paesi che parlano delle discriminazioni, ed è per questo che invitiamo i lettori a inviare le loro storie.
Però, le discriminazioni degli autoctoni verso i loro nuovi vicini di casa non si limitano solo alle scuole. Nel prossimo articolo, voglio descrivere altre forme di discriminazione che iniziano con la lingua locale, ma vanno anche oltre e creano difficoltà tra autoctoni e immigrati, spesso perché politici in ogni paese utilizzano la paura di molti di cambi naturali nei paesi in seguito all’arrivo di grandi numeri di nuovi residenti, per fare campagne elettorali basate su timori e non su programmi per risolvere i problemi nati dall’incapacità politica di quasi tutti i paesi di integrare gli immigrati.
Queste esperienze devono essere documentate e allora invitiamo i lettori a inviare le loro esperienze, buone e cattive, a: gianni.pezzano@thedailycases.com
What does discrimination mean? Part 1
Beauty and stupidity have no skin colour or religion, and so there is no country that does not practice discrimination against minorities in the country, and too often the victims of this discrimination are immigrants and their children.
In this and the next article I would like to explain how this discrimination works, not infrequently also at an official level, and which are the real causes of social conflict and deaths as we read about in the newspapers.
When I started school in Australia, I did not speak a word of English, and the reason is simple. At home we spoke in Italian and therefore, like all children of immigrants, and not only in Australia, I had to overcome barriers that were not just related to language.
The first barrier came when I started to write and did the first assignments.
It was a parish school where the church was also used as classrooms, and of course, while we wrote the nun made the rounds of the students, and when she saw that I had started to write Giovanni, she said “Write John”, in other words, to write the English version of my name.
I refused, just like I always refused in the years that followed, not only because my birth certificate has the name “Giovanni Pezzano”, but also because I recognize myself with that name, even if I prefer the abbreviated version of Gianni.
This happened in every change of school, always Catholic, and with every change of teacher, many of whom said the same thing, always with the same reply. Indeed, my nicknames at school was “Gio”…
Obviously, this is a form of discrimination, but it was not limited to my name.
The teachers judged us children of immigrants, and there were various nationalities in each class, not infrequently the majority of students in a class, according to our imperfect pronunciation of English, or simply according to our origins, and it did not matter what grades we achieved in subjects where the language did not matter, such as mathematics.
Very quickly the Australian students began to make bad jokes to ridicule we children of migrants. Jokes that at the beginning we did not understand due to the low level of English in the early years, and then we began to understand the clichés that I now know even my parents, uncles and aunts suffered in their places of work.
Then, with the ability to understand English, it did not take much to understand the cliché “Italians are mafia” and other “jokes” such as, “If Australia and Italy went to war, who would you fight for?” And we have heard those jokes all our lives, at school and at work.
Unfortunately, I heard that question about the war in every year of my schooling.
And given that I was born in 1956, over time it was not hard to understand that not a few fathers of my peers really had fought against Italian soldiers. I found out only years later that two of my uncles and one of my compari had been prisoners of war of Australian regiments.
I hated that question at the time, and I still hate it today, because, in a certain sense, the two parts of my identity have always been at war because all the natives consider us children of Italian migrants “Italians”, but when we go to Italy for a holiday to meet the relatives, or those like me, who decided to move to Italy, we are considered “Australians”, “Americans”, “English”, etc., etc. etc.
At the time our parents gave the blame for these attitudes to the first American Tv programmes broadcast on Australian television where the “bad guys” we always short Italians with black hair and dark skin. But the years have taught that it was not limited only to these programmes, but also to the newspapers that did not waste the slightest opportunity to put an Italian on the first page as a “criminal”, even for violations that were usually not part of crime reporting…
Unfortunately, these experiences also extended into life outside school and at work.
It was not at all rare while travelling with mamma on the bus to speak in Italian or while walking along the street with her, other Italian friends, or Italian tourists, to hear a man or woman with an Australian accent say, “You’re in Australia, we speak English here”. This still happens in Australia, and even in many other countries.
I do not want to talk about my reactions to this comment which have changed over the course of my life, but about something that many of the people who make these remarks do not understand.
It is not simply the fact there is no official language in Australia, but it is a universal right, the most famous, in other words, the right to freedom of expression and opinion. We have the right to choose the language with which we speak to a person.
We only have to point out that on July 18, 1973, in the Parliament of the State of Victoria, the Member Giovanni Sgrò, an Italian migrant, elected for the Australian Labor Party, spoke part of his first speech in the floor in Italian. (Link to the speech).
Furthermore, we have the right to have the possibility to learn the language of our origins, but this happens rarely. An example can be found in my schools in Australia where the children of migrants made up a large part of the students, but the only choice as a second language we had in the schools I attended was French, when there was not even a single French student in the schools.
And this lack of options should make many readers in Italy understand how our Culture is considered in other countries, and we must keep this in mind when promoting our Culture overseas…
In fact, I have only spoken to my parents in Italian, always in English with my brother and cousins, and in Italian or English depending on which uncle or aunt. This is totally natural amongst migrant families, as I often hear amongst migrants, even in Italy, with the sad observation that now I hear in Italian what the Australians said to us Italians in Australia.
And I confess that these types of episodes make me feel VERY uncomfortable.
This discrimination towards the children of migrants in Australia then extended beyond the formal education of the students.
In the ‘70s, the schools many of us attended, once again often Catholic, but also state schools, and now even Protestant boarding schools, considered the most important and prestigious of a country that uses the British system of government and administration, began to provide career counselling for the students.
It must be explained that this happened before the final year of school because in Australia, with the closed number of university students, you have to prepare intensively in the final years to achieve the levels necessary to qualify for university courses such as Medicine, Law, Engineering and Architecture.
The system was, and still is, cruel, and to be able to attend these courses you must study very hard to achieve a high score in the matriculation exams, as the final year exams are known in Australia, because only the grades of the state matriculation exams count for entry into university. And not a few students repeat the final year at school to be able to have the career they dream of.
And even in choosing careers, at least in the early years, the children of immigrants had to face barriers of discrimination, even in places such as prestigious colleges, Catholic and non-Catholic, especially the female students.
All the students who were children of immigrants encountered the doubts of their teachers, but in the case of the girl students, all the clichés towards Italian women were such that the career councillors advised them to be shop assistants, hairdressers, cleaning ladies, etc., and almost never the careers as doctors, lawyers and so forth that they dreamed.
The saddest fact to the situation of these girls is that in a lot of cases the jobs recommended were precisely those done by the mothers who dreamed of their daughters having important careers.
And we must praise these Italo-Australian girls who challenged this discrimination by becoming professionals of every type.
This was the life of migrants in Australia, and I have little doubt that our readers in other continents have had similar experiences.
In this article I wanted to describe the experiences in schools which should be places of refuge for young people, but often they became fields of battle, and not always academic or verbal.
In fact, I am not proud of the fact that I once had to respond physically to a fellow student who refused to stop offending me. Luckily, one punch was enough to floor him, but at least after that incident he never bothered anyone else again…
I use incidents in Australia, but my intention is NOT to blame only that country, but I want to give testimony of direct experiences. We have had articles from other countries that speak of discrimination, which is why we invite the readers to send their articles.
However, the discrimination of the natives towards their new neighbours are not limited only to schools. In the next article I want to describe other forms of discrimination that start with the local language, but go further and create difficulties between natives and immigrants, often because politicians in every country use the very fear of the natural changes in countries following the arrival of large numbers of new residents to carry out electoral campaigns based on fear and not on programmes to resolve the problems arising from the political inability of almost all countries to integrate migrants.
These experiences must be documented, and so we invite readers to send their experiences, good and bad, to: gianni.pezzano@thedailycases.com