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Arte & Cultura

Calabria. Viaggio lungo l’Acheronte tra storia e Basilianesimo

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Il fiume Carondimonio, antico nome del Lese, attraversa i territori di uno splendido parco archeologico.

 

Ci troviamo in provincia di Crotone e di Acerenthia ora si possono osservare grazie agli scavi effettuati dall’amministrazione comunale, con l’autorizzazione della Soprintendenza, i magnifici resti. Sul nome e sulle origini storia e leggenda si confondono, immergendola in un alone di mistero. Fondata secondo alcuni dagli Enotri, secondo altri dal mitico Filottete, l’urbe era cinta da altissime mura naturali e dominava, così come domina tuttora, la vallata del fiume Lese, un tempo chiamato Acheronte, da cui deriverebbe il nome. Per intuirne la rilevanza, basti citare quanto asserisce l’antropologo Vito Teti (ne “Il senso dei luoghi”): “Qualcuno è pronto a scommettere che Dante è stato sicuramente da queste parti. E trova buoni argomenti per suffragare questa sua certezza. L’abate Gioacchino ‘di spirito profetico dotato’, nato e vissuto da queste parti, avrà invitato certamente il poeta fra questi luoghi. E la selva oscura deriva a Dante quasi certamente dai luoghi della Sila. E il fiume ‘Carondimonio’ altro non è che l’Acheronte, antico nome di Lese, a sua volta affluente di quel fiume Neto cantato dai poeti fin dall’antichità, tuttora centrale in un orizzonte magico- religioso e soprattutto in una dimensione di contatto con le forze ctonie”.

Acerenthia fu un’importante e gloriosa città bizantina. Sul pianoro dove sorgeva l’antico centro, sono ancora evidenti le tracce di un consistente agglomerato urbano, tra cui spiccano, in particolare, un edificio sacro in gran parte conservato e, in posizione eminente, i corposi resti di una struttura più elaborata identificata come il «Vescovato». Sede vescovile per nove secoli (dall’VIII al XVII sec.), sette chiese, settemila abitanti: nei momenti di splendore Acerenthia doveva essere veramente un vivace e animato centro urbano, se nel 1189 l’abate Gioacchino da Fiore, nell’individuare un posto dove edificare la sua abazia, non ritenne adeguate le falde del Lese, soprattutto per la vicinanza alla «rumorosa Acerenthia».

L’estensione della diocesi, stimabile in circa 200 Kmq, comprendeva i territori attuali di Cerenzia, Caccuri, Castelsilano, Belvedere Spinello, Savelli e Verzino. La chiesa di Cerenzia, dedicata anticamente a S. Leone e successivamente a S. Teodoro di Amasea, aveva il titolo di Basilica Cattedrale. Cedimenti continui delle strutture murarie, difficoltà di approvvigionamento di acqua potabile, malaria e terremoti, costrinsero gli abitanti ad un esodo progressivo, che intorno alla metà del 1800 culminò con l’abbandono definitivo ed il trasferimento nel sito attuale. Nonostante l’abbandono, il rapporto dei cerentinesi con la loro antica città non si è mai interrotto: la visita ai resti della città morta è un continuo pellegrinaggio, che in occasione della festa dell’Ecce Homo, diventa una vera e propria processione di tutto il paese.

Recuperato dall’Amministrazione Comunale con un’intervento di bonifica del posto e reso fruibile ai visitatori anche l’insediamento delle grotte rupestri, dove il monachesimo orientale almeno 1200 anni fa, celebrava le sacre funzioni in totale isolamento dal resto del mondo, per effetto dell’editto emanato dall’Imperatore Leone III Isaurico capo della Chiesa orientale.  Sensazioni particolari vengono donate da un silenzio quasi innaturale e dall’osservazione dei segni e della nicchia centrale nella parete di fondo scavata nella roccia al di sopra dell’altare.

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