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Alcol, business e sindacati: come è cambiata la vita degli Sherpa, il popolo di scalatori e portatori che ha conquistato l’Himalaya

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Il termine sherpa oggi viene usato correntemente per indicare i portatori d’alta quota ingaggiati per le spedizioni himalayane. Essi hanno il compito di trasportare i carichi più pesanti (viveri, tende, sacchi a pelo, bombole d’ossigeno) e di mettere in sicurezza i percorsi, così da consentire agli alpinisti di raggiungere più “comodamente” le vette. Ma in pochi sanno che il nome sherpa indica ben più di questo.

di Luca Rinaldi

 

È passato quasi un secolo dal 1921, anno in cui George Mallory, coraggioso avventuriero inglese, tentò per primo la scalata dell’Everest, il più alto degli Ottomila. Questo l’appellativo delle montagne più alte del mondo, la maggior parte presenti in Nepal sulla catena dell’Himalaya: Lothse, Cho Oyu, Makalu ed Everest.

A quel primo tentativo fallito di scalata, ne seguirono altri, fino ad arrivare al 29 maggio del 1953, giorno in cui fu decretata la vittoria dell’uomo sulla natura. Quello fu l’anno di Edmund Hillary, scalatore inglese, primo a conquistare la vetta più ambita: l’Everest. Accanto a lui entrò di diritto nella Storia un altro piccolo uomo di nome Tenzing Norgay, lo sherpa senza il quale probabilmente non ci sarebbe stata alcuna vittoria dell’uomo sulla natura e senza il quale il suo popolo sarebbe rimasto sconosciuto agli occhi del mondo.

Il termine sherpa oggi viene usato correntemente per indicare i portatori d’alta quota ingaggiati per le spedizioni himalayane. Essi hanno il compito di trasportare i carichi più pesanti (viveri, tende, sacchi a pelo, bombole d’ossigeno) e di mettere in sicurezza i percorsi, così da consentire agli alpinisti di raggiungere più “comodamente” le vette. Ma in pochi sanno che il nome sherpa indica ben più di questo.

L’essere sherpa non significa solo svolgere quel tipo di lavoro in quella specifica zona del globo, ma vuol dire innanzitutto fare parte di un popolo. Sì, perché gli sherpa sono un gruppo etnico di quasi 200.000 individui, con una propria lingua, con proprie tradizioni e credenze. Originari della zona orientale del Tibet, nel corso degli anni e a seguito di diverse migrazioni, si sono trasferiti a sud della catena himalayana, là dove il clima era più ostile e il paesaggio più aspro e montagnoso e, soprattutto, dove l’isolamento dal resto del mondo era totale, o almeno lo è stato fino a pochi decenni fa.

Oggi gli sherpa (parola che significa uomini dell’est) abitano la regione del Khumbu e, in seguito all’occupazione cinese del Tibet e all’apertura delle frontiere nepalesi al resto del mondo, hanno quasi del tutto sostituito le originarie fonti di sussistenza date da agricoltura, allevamento e trasporto di merci tra Nepal e Tibet, con la più proficua attività del turismo. Iniziato con le prime spedizioni alpinistiche agli arbori della conquista delle vette più alte del pianeta, il turismo nella zona si compone oggi anche dell’arrivo di escursionisti provenienti da tutto il mondo diretti al campo base dell’Everest a 5.000 metri.

Gli sherpa paradossalmente non erano nati scalatori e anzi erano ben lungi dal provare imprese del genere, in quanto, la cultura profondamente buddista fa loro credere all’esistenza di spiriti e demoni che popolerebbero l’Everest, chiamato in lingua sherpa Sagarmatha, ossia “la dimora della dea madre della Terra”, per la quale nutrono un rispetto assoluto.

Ma se non nascono come scalatori, allora come possono, questi piccoli uomini, essere in grado di sconfiggere giganti alti 8.000 metri? Come possono muoversi agili sui sentieri più impervi e difficili? Come riescono a mantenere quel loro passo corto e cadenzato, e quella respirazione perfetta anche a quote impossibili e a fare di ogni roccia, arbusto e radice che trovano sulla loro strada un appiglio, quando anche il più esperto degli scalatori in essi vede solo ostacoli e difficoltà?

La ragione è da trovare nei tratti evolutivi, tipici anche degli andini: i polmoni particolarmente voluminosi, l’assenza di iperventilazione e l’alta concentrazione di emoglobina consentono infatti loro di vivere più agevolmente sopra i 3.000 metri di quota. D’altro canto, la capacità tipica istintiva degli sherpa di capire nel profondo la natura e l’intuito sviluppato nel prevedere le diverse condizioni atmosferiche, sembra derivare invece da secoli di vita nella zona, che hanno reso ormai innate queste caratteristiche.

Ma proprio queste loro capacità, applicate in maniera tanto efficace alla pratica turistica dell’area, sono state forse uno dei motivi dell’inizio della decadenza della cultura sherpa.

Partecipare oggi ad una spedizione, per uno sherpa, significa guadagnare cifre importanti, anche migliaia di dollari, significa potersi permettere conforti materiali e soprattutto significa confrontarsi con uno sviluppo economico diverso da quello a cui erano abituati in passato. La cultura sherpa oggi è letteralmente spaccata in due, con le nuove generazioni da un lato, che hanno fatto dell’attività di portatori d’alta quota un vero e proprio business, con tanto di sindacati che rivendicano più denaro e richieste di assicurazioni per i portatori e le loro famiglie per quelle che vengono definite vere e proprie “morti sul lavoro”. Ovviamente il maggior afflusso di denaro, al quale la cultura sherpa non era mai stata particolarmente interessata, porta a non sapere che farsene, sfociando in abuso di alcol, ulteriore sintomo di decadenza.

Dall’altro lato ci sono invece ancora sherpa legati alle tradizioni e che cercano di mantenerle vive, proprio perché le vedono poco alla volta scomparire. Questi non iniziano mai una scalata senza celebrare al campo base una preghiera rivolta alla clemenza della montagna, così come sono legati alla lingua sherpa, agli abiti tradizionali, alle cerimonie. Alcuni di loro vorrebbero addirittura interrompere le spedizioni perché, pur consapevoli che l’attività di portatori e scalatori faccia ormai parte della loro storia, sono altresì convinti che il rispetto della natura e delle divinità siano più importanti, esistendo da ben prima che cominciassero le scalate e che il mondo si interessasse all’Everest.

 

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